Omaggio ad Alfredo Castelli ed alla ‘Cultura Alternativa’
In tutti gli alberghi di Bogotà è esposto un cartello che invita i turisti a visitore l’Eldorado. Il costo del viaggio in “Taxi Verde” (un auto pubblica riservata a escursioni turistiche) non è alto, ma se deciderete di compierlo avrete egualmente una delusione. Ciò che i tassisti vi mostreranno dopo avervi accompagnato a tre/quattro ore fuori dalla città non è la leggendario città d’oro bensì un lago chiamato Guatavita. E per di più non si tratta neppure del vero lago, ma di uno specchio d’acqua artificiale creato da una diga sul fiume Tominé. Nemmeno il paese di Guatavita è “vero”; è infatti una moderna ricostruzione stile Porto Cervo di un piccolo centro che ora giace sotto le acque del bacino. Il vero lago di Guatavita – vi spiegherà il tassista – si trova “più sopra”, a qualche ora di cammino; “comunque” – continuerà la vostra guida – “non è particolarmente interessante da vedere”. E in effetti non lo è: dopo una lunga solita resa ancor più faticosa dall’aria rarefatta dell’altipiano andino potrete vedere un laghetto mille volte meno spettacolare di quello di Carezza e mille volte meno inquietante di quello di Bolsena.
Eppure qui si celebrava, secoli fa, il rito dell’El Dorado, “Il dorato”, una cerimonia suggestiva e che, effettivamente, implicava il sacrificio di una certa ricchezza, e che tuttavia non giustifica gli incredibili sforzi e l’enorme spargimento di sangue che riuscì a scotenore nel giro di pochi decenni.
Ma vale la pena cominciare dall’inizio. Nei territori ora occupati dagli attuali Colombia, Perù e Ecuador l’or0 era un materiale se non proprio comune certo meno raro che in Europa. Più che per il suo valore monetario (determinato dalla maggior o minor abbondanza di un prodotto) ero apprezzato sia per la sua bellezza intrinseca sia per il suo significato emblematico. Combinando i quattro elementi (lo roccio aurifera, ovvero la terra, il fuoco, l’aria, l’acqua), la materia bruta può trasformarsi in un metallo scintillante; così anche l’uomo, sfruttando correttamente le forze della natura, può passare dallo stadio primitivo a quello di essere superiore. A simboleggiare questo passoggio lo Zipa, grande sacerdote delle tribù dei Chibcha (uno dei più importanti popoli precolombiani), interpretava una singolare cerimonia. Completamente nudo, veniva ricoperto di uno speciale resina chiamata Varniz de Pasto; quindi gli veniva soffiata addosso della polvere d’oro per mezzo di una piccola cerbottana. Così splendente e dorato (da cui il nome “El Dorado”) raggiungeva il centro del lago di Guotavita e vi si immergeva quando il sole era allo zenit; in quel momento i suoi sudditi gettavano nelle acque oggetti votivi di ogni genere, spesso realizzati in oro.
Era il 1520. Hernan Cortéz, tornato in Europa, avevo descritto al re di Spagna la magnificenza dei tesori di Montezuma: “Un disco a forma di sole, grande come lo ruota di un carro e d’oro finissimo… Venti anatre d’oro di squisita fattura… Ornamenti a forma di cani, tigri, leoni, scimmie”. Un inventario che sembrava inesauribile e che fece nascere la convinzione che esistesse una terra ove l’oro era comune come le rocce. Parallelamente la notizia di un “uomo d’oro”, l’Eldorado, cominciava a ingigantirsi e ad assumere toni di leggenda. Insomma, corse ben presto la voce che in Sudamerica o in America centrale si trovava un territorio chiamato Eldorado ove le strade e i tetti delle case erano lastricati del prezioso metallo. Tra il 1529 e il 1616 sei spedizioni (guidate da Ambrosius Dalfinger, Nicolaus Federmann, Georg Hohermuth, Sebastian de Belalcazar, Gonzalo Jimenez de Quesada, Walter Raleigh) partirono alla ricerca di inesistenti città d’oro (a Eldorado si era aggiunta Ma-Noa, mitica “isola in un gran lago salato”). Centinaia e centinaia di indios furono torturati e uccisi perché rivelassero ciò che non sapevano; centinaia di conquistadores persero invano la vita nello foresta o sugli impervi sentieri andini. E il sogno dell’Eldorado continua in tempi recenti. Nel 1927 il colonnello Percy Fawcett perì misteriosamente in Mato Grosso (Brasile) durante lo ricerca del “Tempio di Ibez”, una città posta in cima a una montagna che l’esploratore inglese identificava non soltanto come il regno dell’Uomo Dorato, ma anche come una colonia avanzata dello civiltà Atlantidea.
Cosa leggere sull’Eldorado
Eldorado, di Victor Von Hagen
(Mondadori)
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