Noi, comunicatori di incomunicabilità
«Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità.»
Il nucleo tematico della filosofia di Lévinas è una ricerca sulla relazione con Altri come unico sensato orizzonte etico dove l’essere non è, e non può essere, una totalità unitaria a sè stante ma può sostanziarsi solamente come pluralità sociale.
“L’essere non è dunque totalità unitaria da svelare e contemplare, ma pluralità sociale, rapporto etico da realizzare”1.
È questo rapporto con Altri che viene presentato come unica via possibile per l’uomo e l’umanità per uscire della solitudine dell’io, in controcorrente ad una certa tendenza di fondo della filosofia occidentale che avrebbe voluto racchiudere tutto il sensato nell’alveo dell’io a vantaggio del mutuo corrispondersi dell’io con l’altro da sè.
Ciò che interessa principalmente Lévinas non è più il puro essere, come in Heidegger, bensì ciò che si può intendere e conoscere correttamente solo se si và al-di-là dell’essere.
L’essere per prendere atto della coscienza consapevole della sua esistenza non può più essere presente a se stesso, nel darsi a se stesso, ma la sua sostanzialità consiste nel trascendersi ponendo nel cuore stesso un rimando costante e continuo a ciò che è altro da sé.
È in questa relazione con l’altro, in questa comunicazione con l’altro, che l’essere Lévinassiano trova un perfetto compimento o, usando un’espressione dell’autore, “riempimento”.
L’essere nel relazionarsi con l’altro adempie al suo “destino spirituale”2. La sua critica all’ontologia dominante, che lui stigmatizza come filosofia del potere sull’essere, arriva a sfociare in una posizione di tragica e drammatica rottura affermando testualmente che “il poggiare solo su di sé si rivela solo come un poggiare sul nulla”3. Lévinas, però, individua nel linguaggio la vera frattura nella relazione con l’altro.
Tutta l’opera di Lévinas, infatti, è assillata da ciò che non può essere detto, comunicato. Da qui il suo tentativo di ricomprendere l’intero compito del linguaggio e della parola a partire da ciò che inevitabilmente vi si sottrae. Una comunicazione con l’altro che, però, lo lasci essere altro.
Prendendo coscienza che gli altri individui sono qualcosa di totalmente altro rispetto al nostro essere, si può definire il senso di una nuova etica: io non posso assimilare l’Altro a me; l’Altro (ovvero l’individuo diverso e distinto da me) è inaccessibile al mio sentire, perché io non sento e non vivo la sua vita. L’Altro rimane, allora, sempre distinto dal mio essere, rimane qualcosa di inaccessibile e misterioso che si svela solamente attraverso la comunicazione interpersonale.
Nella vita quotidiana l’uomo pensa secondo le categorie dell’essere omnicomprensivo, pensa come se comprendesse veramente ciò che vive l’Altro, ma questo non è immediatamente possibile. Da qui l’amara consapevolezza del perdurare di un’incomunicabilità di fondo.
Lévinas, cosciente che l’essenza dell’uomo è quella dell’isolamento dagli altri esseri, afferma che l’etica dell’Altro da sé muove dalla consapevolezza che ogni individualità deve rispettare la differenza dell’altro, differenza che perdura come mistero incommensurabile, in quanto nulla si può sapere degli altri. Ciò che crediamo di sapere degli altri è solo una nostra immagine degli altri, in realtà gli altri sono inaccessibili alla nostra vera conoscenza.
Emmanuel Lévinas
Lévinas, filosofo contemporaneo (1906-1995), considerato il filosofo dell’etica in alternativa al pensiero di Heidegger, filosofo dell’ontologia, si presenta come una delle proposte più originali e profonde della filosofia del ‘900, sfuggendo alla centralità del soggetto, alla metafisica tradizionale e al nichelismo imperante.
Nei suoi scritti Lévinas, ebreo e studioso del Talmud, fa risuonare il grido degli antichi profeti e quello dei martiri della violenza antisemita, vittime prescelte di un periodo storico in cui la cultura occidentale, dominata dall’ontologia totalitaria, dall’individualismo perde di vista “l’umanità dell’uomo”4. L’humanum universale che una civiltà, a suo dire, dovrebbe difendere in ogni singolo uomo al di là di ogni razza o appartenenza religiosa.
Lévinas, fin da giovane, segue analiticamente i concreti problemi sociali e politici che la sua gente deve affrontare in Europa; problemi divenuti di colpo acuti dopo l’ascesa di Hitler al potere in Germania.
Anche se non incline a prese di posizioni politiche pubbliche, già nel ’34 Lévinas scrive un articolo, nella rivista Esprit, intitolato “Qualche riflessione sulla filosofia dell’Hitlerismo“5 nel quale denuncia la visione filosofica che sta alla base dell’Hitlerismo e che si oppone alla civiltà europea tutta, non solo perché contrasta con il liberismo politico, ma anche perché si distacca da quella visione dell’uomo come”libertà spirituale assoluta”6 di fronte al mondo corporeo e alla stessa storia, che l’ebraismo, come il cristianesimo, hanno introdotto e radicato nella cultura occidentale e che il liberalismo moderno ha conservato sotto forma di ” libertà sovrana della ragione”7.
“Non è questo o quel dogma della democrazia, del parlamentarismo, del costituzionalismo o della politica religiosa che è in causa. È l’umanità stessa dell’uomo”8.
Ricordiamo che Lévinas stesso fu imprigionato e che molti suoi parenti perirono durante quegli anni. È in questo contesto che Lévinas va maturando, sia sul piano umano che su quello più squisitamente filosofico,distaccandosi sempre più dall’ontologia heideggeriana, che tanto lo aveva fino a quel punto influenzato.
Denuncia l’ontologia heideggeriana come portatrice di una cultura “barbara”9, pronta a giustificare i crimini più orrendi.
L’adesione di Heidegger al nazismo, nel 1933, fu quindi vista fin d’allora da Lévinas come strettamente connessa con la sua stessa ontologia,bollata come”filosofia della potenza”,”filosofia dell’ingiustizia”, che apre al “dominio impersonale” e alla “tirannia dello stato”10.
Per rovesciare tale ontologia,sbocco ultimo del corso dominate della filosofia occidentale fino a quel punto,il filosofo intende inaugurare una nuova via. Un nuovo corso dove sia l’alterità sia la trascendenza significhino, in termini etici e non più ontologico metafisici,la ricerca del “Bene”,ovvero il problema della “Relazione con altri come movimento verso il Bene”, alla luce della formula platonica che pone “il Bene al di là dell’essere”11.
Un pensiero questo che mantiene una forte carica di ebraismo proprio nella continua messa in discussione dell’identità del soggetto in quanto tale e nella mai terminabile ermeneutica dell’oltre.
L’Io di Lévinas, nel sorgere soggetto come ente autonomo,per non finire e per non chiudersi nella solitudine più assoluta, non può che porsi in relazione con l’altro da sé, gli Altri. Di qui la necessita di individuare la via per instaurare tale relazione.
Lévinas sostiene fin dall’opera “Dall’esistenza all’esistente” che tale relazione non può instaurarsi rimanendo sul piano dell’ontologia, cioè sul piano dell’essere studiato con il metodo fenomenologico classico.
Nella cultura occidentale dell’immediato dopoguerra, dominata dall’esistenzialismo di Sartre e dalla filosofia di Heidegger, l’opera “Dall’esistenza all’esistente“, vuole dirci di non interpretare l’esistenza come angoscia o paura di fronte al nulla o alla morte, bensì come “orrore per l’essere stanco di essere”12, di essere “pesantezza anonima”13, propri dell’individualismo.
È in quest’opera, chiave di volta del suo pensiero, che Lévinas pone al centro un problema che egli chiama dell’il y a, del “c’è”, dell’esistenza c’è, dove per esistenza si deve intendere il costituirsi dell’esperienza soggettiva. Tema, questo, vicino all’esistenzialismo francese: pensiamo alla “nausea” sartriana dove, però, l’esistenza non va ad invischiarsi e a perdersi in una sterile offerta all’essere e per l’essere.
Bisogna muoversi dall’il y a per dirigersi verso la questione dell’altro ed è questo passaggio che viene ad occupare la zona filosoficamente più densa di “Dall’esistenza all’esistente“(1947), divenendo anche il fuoco tematico delle successive opere “Totalità e Infinito“(1961) e “Altrimenti che essere“(1974).
Negli oltre trent’anni di produzione teoretica che seguono la pubblicazione di “Dall’esistenza all’esistente“, Lévinas è infatti andato costruendo un pensiero dell’etica centrato sul rapporto con l’altro: pensiero della pazienza verso l’altro, del “volto“, della sostituzione.
Un’esistenza anonima che si dovrebbe rivolgere ad un rinnovato esistente dove i soggetti si interfaccino per generare una civiltà nuova all’altezza delle aspettative della storia appena passata.
Una direzione programmatica, questa, cui Lévinas rimarrà fedele in tutto lo sviluppo del suo pensiero, nonostante il variare “della sua terminologia,delle sue formule, dei suoi concetti operativi e di certe sue tesi”14, come egli stesso riconosce nella prefazione del ’78 della seconda edizione dell’opera sopra citata.
L’esperienza dell’Olocausto è quindi una delle esperienze fondamentali per la maturazione del pensiero di Lévinas; a riguardo risulta significativa la dedica che egli apporrà alla sua opera fondamentale “Altrimenti che essere“: “Alla memoria degli esseri a me più prossimi tra i sei milioni di assassinati dai nazional-socialisti, accanto ai milioni e milioni di esseri umani di ogni confessione e di ogni nazione, vittime dello stesso odio da parte di un altro uomo”15.
L’antisemitismo verrà da lui compreso come “la paura della prossimità dell’altro uomo, e cioè della socialità stessa”16.
Le vicende dell’Olocausto, continua Lévinas hanno quindi rivelato all’umanità intera, attraverso la “passione” di un popolo “eletto”17 a tal fine, il volto stesso del male, che nella sua essenza è odio per l’altro uomo. Lévinas, grazie all’influenza dell’insegnamento di Couchani riprende fiducia nel valore attuale dei testi biblici, letti attraverso la tradizione talmudica, al fine di mantenere vivo quel senso fondamentale dell’uomo che la filosofia è chiamata a mettere in luce con metodo critico e in forma universale.
Uno stretto legame unisce la sua ermeneutica talmudica e la sua riflessione filosofica, tanto che non è facile dire quanto la prima debba alla seconda e quanto la seconda abbia influito sulla prima.
Lévinas si impegna, quindi, in tutto il suo percorso di studioso, ad analizzare la problematica della solitudine dell’Io attraverso un’organica e complessiva formulazione della socialità e ciò in una progettualità prettamente filosofica. “Il mio prossimo è da considerarsi l’essente per eccellenza”18.
Già nelle quattro conferenze del ’46-47 dal titolo “Il Tempo e l’Altro“, il filosofo sostiene che ciò che ci può portare oltre l’essere, oltre lo stesso attaccamento egoistico al nostro proprio io, facendoci quindi trascendere il piano dell’ontologia, non è la conoscenza ma solo la relazione con altri,la socialità. Ed il tempo,quale effettiva trascendenza verso la novità del futuro, è visto in quest’opera come la molla che ci apre alla relazione con altri.
“Il Tempo e l’Altro” è una ricerca sulla relazione con Altri, in quanto questa ha per elemento costitutivo il tempo; come se il tempo fosse la trascendenza , l’apertura per eccellenza su altri e sull’Altro”19.
Ciò, vale la pena di ricordare, in un periodo in cui Sartre descriveva l’esistenza come chiusa in una solitudine senza via d’uscita e Haidegger la dichiarava come assolutamente isolata di fronte alla morte.
Da sottolineare è anche l’impegno di Lévinas, non solo come puro filosofo, ma anche come onesto intellettuale rispetto alle vicende politiche e storiche che si susseguivano nei decenni del dopoguerra. Nel ’79, ad esempio, in occasione della visita in Francia del presidente Saddat, pubblica un testo intitolato significativamente “Politique après!” (Politica in subordine!).
Una politica fatta di ideologie che devono imparare a subordinarsi al bisogno di pace presente tra il popolo israeliano e quello arabo.
Non meno simbolica la sua attiva partecipazione, fin da 1965, al comitato direttivo dell’Amicizia Ebraico-Cristiana di Francia.
Lévinas: l’essere come pluralità sociale
L’opera di Lévinas, a partire dagli anni ’70, diviene sempre più conosciuta, discussa e apprezzata tanto da essere ritenuta come una delle alternative più geniali ed affascinanti, da un lato, alla crisi dei sistemi totalizzanti di ogni forma di senso come lo storicismo idealistico e quello marxista, e, dall’altro, alle tentazioni post-moderne della messa in questione e/o frantumazione di ogni possibile senso come nel nietzschianesimo, nello strutturalismo, nel decostruzionalismo.
Lévinas non si lascia coinvolgere direttamente in queste nuove mode culturali né tanto meno si lascia travolgere, come intellettuale, dagli avvenimenti politici degli anni a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.
Non mancherà, però, di esprimere il proprio giudizio sui valori in gioco in quei giorni, discernendo l’autentico dall’inautentico, anche per trovare conferme circa le tesi di fondo della sua filosofia.
“Nel 1968 avevo l’impressione che tutti i valori fossero contestati, come borghesi, tutti tranne uno, il valore dell’Altro. Nessuno ha mai detto che il diritto dell’altro uomo, malgrado tutta la liberazione dell’io spontaneo, malgrado tutte le licenze di linguaggio, il disprezzo dell’altro come nemico di classe, resta intangibile. Anche quando risuona il linguaggio contro l’altro, dietro si sente un linguaggio per l’altro”20.
“Nelle folgorazioni di qualche istante privilegiato del ’68”, scrive egli nel 1970, “presto spente da un linguaggio e da un pensiero altrettanto conformista e ciarliero di quello che andava sostituendo,la gioventù ha riscoperto il valore per l’humanum, il debito di ogni io verso l’altro comprendendo come una tumefazione ontologica degli individui messi in essere per meriti, titoli, competenze professionali in una società sempre più gerarchizzata e sempre meno egualitaria. Al capitale in avere si sostituisca un capitale ben più importante, quello dell’essere e dell’alterità”21.
L’utopia quindi da realizzare, secondo Lévinas, è il raggiungere un equilibrato rapporto etico nella e della pluralità sociale.
Se il tema di “Dall’esistenza all’esistente” era l’uscita dell’esistente dall’anonimato dell’esistenza, il tema di “Il Tempo e l’Altro“22 è l’uscita dalla solitudine dell’esistente, un’uscita individuata nel “tempo quale evento scaturente dalla relazione con l’altro”23.
Il fine di queste conferenze è dimostrare che il tempo non può appartenere ad un soggetto isolato e solo, ma che esso è la relazione stessa del soggetto con altri. L’essere si sostanzia nella socialità e nel tempo, che ne sono, come si esprimerà Lévinas in “Totalità e Infinito“, la “struttura ultima”.
L’intento di quest’opera è quella di prendere le distanze dall’ontologia dell’essere parmenideo, caratterizzato dall’unità dell’io(ontologia dominante l’idealismo occidentale da Platone fino ad Heidegger), per prospettare un “esistere pluralista”24, ciò senza sminuire l’io in quanto entità libera: “tra esseri ci si può scambiare tutto, tranne l’esistere”25.
L’io senza l’altro diviene inevitabilmente atemporale, un io che si chiude nella propria identità cade in una solitudine che si caratterizza anche quale “assenza di tempo”.
“L’io solitario è per sua natura cominciamento ed evanescenza continua, non deriva da un passato né anticipa un futuro. Appena nato esso si raggela in se stesso per sempre, senza possibilità di trapasso o continuità da un istante all’altro”26.
Il tragico della solitudine risulta quindi essere il tragico di questo indissolubile legame al proprio presente, il tragico dell’assenza di tempo.
La “soggettività definitiva” dell’io è quindi “bisogno del tempo”, speranza che il presente possa essere riparato, redento, “salvato” ossia possa “ricominciare come altro”27.
Questa alterità l’io non può però darsela da sé. Essa può giungergli solo dagli altri. “Parlare del tempo in un soggetto solo, parlare di una durata puramente personale, ci sembra impossibile. Il futuro è l’altro. La relazione con il futuro è la relazione stessa con l’altro”28.
Con il concetto di “Altri” (altrui), si entra a pieno titolo in uno dei concetti chiave del pensiero maturo di Lévinas. Nelle relazioni quotidiane con gli altri, sostiene il filosofo, noi rivestiamo l’altro con le nostre categorie, ci proiettiamo in lui con simpatia (nel senso etimologico del termine) considerandolo intercambiabile, in relazione di reciprocità con noi e con tutti gli altri. È in questo modo che nascono le relazioni sociali di cui è intessuta la nostra società.
“L’altro non è solo un alter ego; esso è ciò che io non sono. Lo è non in ragione del suo carattere o della sua fisionomia, o della sua psicologia, ma in ragione della sua stessa alterità”29.
“Il nostro rapporto con lui consiste certamente nel volerlo comprendere, nel volerlo conoscere. Questo rapporto però va oltre la comprensione. Non soltanto perché la conoscenza dell’altro [altrui] richiede, oltre la curiosità, anche simpatia o amore, modi d’essere diversi dalla contemplazione impassibile. Ma anche perché nel nostro rapporto con l’altro [altrui], questi non ci tocca a partire da un concetto. Egli è essente e conta come tale”30.
Il “volto” che parla e la relazione etica
La nozione di “volto” (visage), con la sua originalissima fenomenologia, emerge e viene in primo piano, nel pensiero di Lévinas, a partire dai tre saggi “L’ontologie est-elle fondamentale?” (1951), “Éthique et esprit” (1952), “Liberté et commandement“(1953), per poi trovare il “Totalità ed Infinito” un posto di grande rilievo. L’intento di Lévinas è riuscire ad elaborare col massimo rigore una situazione o struttura dialettica formale e poi individuare una struttura dialettica concreta, ovvero una situazione di esperienza vissuta, in cui tale struttura formale di fatto si produce.
Quest’idea dell’ infinito, ossia dell’infinitamente contenuto nel meno, si produce concretamente con la relazione del “volto“. Il “volto” è quindi il modo concreto con cui l’Altro, infinitamente Altro, si presenta a me, entra con me in quell’eccezionale relazione metafisica che l’idea dell’infinito delinea.
“Noi chiamiamo volto il modo con cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me. Questo modo non consiste nell’assumere, di fronte al mio sguardo la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altri distrugge ad ogni istante, ed oltrepassa, l’immagine plastica che mi lascia, l’idea a mia misura e a misura del suo ideatum – l’idea adeguata. Non si manifesta in base a queste qualità ma si esprime per mezzo d’esse”31.
“L’essente in quanto tale (e non in quanto incarnazione dell’essere universale) può essere solo all’interno di una relazione in cui gli si rivolga la parola. L’essente è l’uomo ed è in quanto prossimo che l’uomo è accessibile. In quanto volto.”32
La specialissima fenomenologia del “volto“, che Lévinas propone, tende quindi innanzitutto a distinguere il “volto“, quale espressione dell’Atro, sia dai suoi lineamenti, che posso oggettivare riportandoli a categorie generali (ad esempio il colore dei suoi occhi,la forma del suo viso,la sua statura), sia dalle qualifiche con cui si inserisce nella trama di relazioni del mio mondo oggettivo (ad esempio la sua professione). “L’incontro con l’alto è comprensibile a partire dalla sua storia, dal suo ambiente, dalle sue abitudini.”33
“La nozione di volto differisce da qualunque contenuto rappresentato”34. Anzi, il volto è proprio quella presenza viva dell’Altro in persona, che costantemente mette in crisi, o disfa, le varie “forme” con cui io tendo a farlo rientrare nel già noto, nelle mie categorie di pensiero, nella stessa generalissima precomprensione dell’essere.
“Il volto è presenza viva, è espressione (…) il volto parla. La manifestazione del volto è già discorso”35.
Lévinas individua nella “parola” la prima e fondamentale esperienza positiva cui ricorre per descrivere il modo di presentarsi dell’altro come”volto“. Il “volto” si presenta parlando.
Riflettendo sulla natura del linguaggio, irriducibile a semplice strumento per comunicare pensieri già formati, Lévinas ne individua la natura profonda proprio nel suo essere l’espressione privilegiata del parlante.
“Il linguaggio è un rapporto tra esseri separati”36.
L’Altro si presenta quindi originariamente come volto che mi parla, interpretandolo in base al paradigma ottico della visione, che è essenzialmente “un’ adeguazione dell’esteriorità all’interiorità”37. “Comprendere una persona significa già parlarle. Porre l’esistenza dell’altro [altrui] nel lasciarla essere significa già aver accettato quest’esistenza, aver tenuto conto di essa. “Aver accettato”, “aver tenuto conto” non si riduce ad una comprensione, ad un lasciar-essere. La parola [parole] delinea una relazione originale. Si tratta di cogliere la funzione del linguaggio non in quanto subordinata alla coscienza che si può avere della presenza dell’altro [altrui] o della sua vicinanza o della comunità con lui, ma in quanto condizione di questa “presa di coscienza”38.
“L’uomo è l’unico essere che io non posso incontrare senza esprimergli questo stesso incontro. In ogni comportamento nei confronti dell’essere umano c’è il saluto-persino quando si esprime come rifiuto di salutare. Questa impossibilità di accostarsi all’altro [altrui] senza parlargli significa che in questo caso il pensiero è inseparabile dall’espressione”39.
Comunque è importante ricordare che per Lévinas, di tutte le principali categorie filosofiche, risulta essere l’etica, e non il linguaggio, a costituire la “filosofia prima”.
Da qui la rilettura, che Lévinas svolge di tutte le principali categorie filosofiche, linguaggio compreso, in chiave etica, che si ritrova anche nella manifestazione del volto, cioè “la coscienza morale”40. La presenza del volto nel mondo con la sua nudità (apparenza ma essenza) è continuamente trascendenza e immanenza ed il volto in quanto nudità richiede una risposta”. Il volto significa […] la nudità del volto non è una figura stilistica, essa significa di per se stessa”41.
La relazione etica tra me ed Altri si instaura quindi come responsabilità di me verso altri, come responsabilità assoluta che non dipende, in quanto tale, dalla reciproca responsabilità di Altri verso me. La mia relazione con il prossimo non è mai il reciproco di quella che lui ha con me, poiché io non sono mai sdebitato nei confronti dell’altro. La relazione è irreversibile e asimmetrica”. L’umano si offre ad una relazione che non si configura in termini di potere”42; “Il trionfo del potere è la sua sconfitta come potere. Proprio nel momento in cui il mio potere di uccidere si realizza, l’altro [altrui] mi è sfuggito. Io posso certamente raggiungere uno scopo uccidendolo, posso uccidere così come vado a caccia o come abbatto un albero o un animale ma questo solo perché l’ho percepito all’orizzonte. Non l’ho guardato in faccia, non ho incontrato il suo volto. Essere in relazione con l’altro [altrui] faccia a faccia significa non poter uccidere”43.
La caratterizzazione etica con l’Altro si muove in un orientamento di responsabilità che va da me verso Altri, “curvatura dello spazio intersoggettivo”, che situa Altri più in alto di me.” L’obbligo nei riguardi d’altri, come impossibile indifferenza, riguardo alle disgrazie o alle colpe del prossimo, come responsabilità irrecusabile a suo riguardo. Responsabilità di cui è impossibile fissare i limiti”.
“La fraternità biologica umana, pensata con la sobria freddezza cainesca, non è ragione sufficiente perché io sia responsabile di un essere separato; la sobria freddezza cainesca consiste nel pensare la responsabilità a partire dalla libertà o secondo un contratto. La responsabilità per l’altro viene dall’al di qua della mia libertà”.
“La responsabilità a cui sono esposto nei confronti dell’altro è insostituibile, nessuno può qui sostituirsi a me; facendo appello a me come ad un’accusato che non potrà ricusare l’accusa, essa mi obbliga come insostituibile ed unico”.”Io non posso,senza mancanza o senza colpa o senza complesso, nascondermi al volto del prossimo: eccomi votato all’altro senza possibile rinuncia”. “La mia responsabilità, mio malgrado, che è la maniera in cui altri incombe su di me, o mi incomoda, cioè mi è vicino, è intesa o intendimento di un grido verso Dio. È il risveglio. La prossimità del prossimo è la mia responsabilità per esso”44.
Note
1 E. Lévinas, TI, Nijhoff, La Haye, 1961
2 E. Lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967(1° ed. 1949); tr. it. La traccia dell’altro, a cura di F. Ciaramelli, Pironti, Napoli, 1979, pp 8
3 Ibidem, pp 89
4 E. Lévinas, IH, Fata Morgana, Paris, 1994
5 E. Lévinas, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme, in Esprit, 1934
6 Ibidem.
7 Ibidem.
8 E. Lévinas, IH, op cit., pp 41
9 E. Lévinas, E, Fata Morgana, Montpellier 1982; tr. it. Dell’evasione, a cura di G. Ceccon e G. Francis,Elitropia, Reggio Emilia, 1983
10 E. Lévinas, TI, op. cit., pp 12-18
11 E. Lévinas, EE, Vrin, Paris, 1978
12 E. Lévinas, EE, op cit.
13 Ibidem.
14 E. Lévinas, EE, op. cit.
15 E. Lévinas, AE, Nijhoff, La Haye, 1974
16 G. Ferretti, La filosofia di Lévinas, Rosenberg&Sellier, Torino, 1996
17 E. Lévinas, Senza nome, saggio del 1966, pp 155-159
18 E. Lévinas, NP, Fata Morgana, Paris, 1976, pp 172
19 E. Lévinas, EI, Fayard et Radio France, Paris, 1982
20 E. Lévinas, In Malka, pp. 110;122-123
21 E. Lévinas, HAH, Fata Morgana,Montpellier 1972, pp 101;110
22 E. Lévinas, TA, Puf, Paris 1983
23 E. Lévinas, EE, op. cit., pp 160
24 E. Lévinas, TA, op. cit., pp 87
25 E. Lévinas, TA, op. cit., pp 21
26 E. Lévinas, EE, op. cit., pp 132-136
27 E. Lévinas, EE, op. cit., pp 159
28 E. Lévinas, TA, op. cit., pp 64
29 E. Lévinas, TA, op. cit., pp 75
30 E. Lévinas, NP, op. cit., pp 167-168
31 E. Lévinas, TI, op. cit., pp 21
32 E. Lévinas, NP, op. cit., pp 171
33 Ibidem.
34 E. Lévinas, TI, op. cit., pp 152
35 E. Lévinas, TI, op. cit., pp 37
36 E. Lévinas, TI, op. cit., pp 179
37 E. Lévinas, TI, op. cit., pp 271-303
38 E. Lévinas, NP, op. cit., pp 168
39 E. Lévinas, NP, op. cit., pp 169
40 E. Lévinas, NP, op. cit., pp 173
41 E. Lévinas, NP, op. cit., pp 172-173
42 Ibidem.
43 Ibidem.
44 E. Lévinas, DVI, Vrin, Paris 1982, pp 94-95
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– www.filosofico.net
– www.forma-mentis.net
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