Gardenio Granata, Rilettura dell’Edipo Re (senza complesso) di Sofocle
Quando un re diventa cattivo detective ed enigmista fallito: antefatto
A Tebe infuriano carestia e pestilenza. Il popolo gemente supplica il re Edipo di soccorrere la città. “Non crediate di risvegliare un dormiente – dice il re – ho già pianto anch’io molte lacrime sulle nostre sventure, e ho già fatto ciò che era in mio potere fare: ho inviato Creonte, fratello della regina Giocasta, a interrogare l’oracolo delfico. Quando conosceremo il responso del dio sapremo come dobbiamo comportarci per scongiurare questo malanno”.
Creonte, atteso, ritorna, e riferisce il messaggio: Apollo ordina ai Tebani di allontanare l’orribile macchia che contamina la città. Ma che cosa intende il dio, chiede Edipo, come possiamo purificare la città? Creonte può spiegarlo: si tratta di punire un omicidio. Laio, il sovrano che regnava su Tebe prima di Edipo, era stato assasinato molto tempo prima, ma il colpevole non è mai stato scoperto. Troviamolo, cacciamolo dalla città oppure uccidiamolo: allora peste e carestia scompariranno! Edipo, di buon grado, si assume l’onere di condurre l’inchiesta…
The Murders in the Rue Morgue
«Quale canto cantavano le Sirene? E qual era il nome assunto da Achille quando si nascose a Sciro fra le donne? Simili domande, benché ci lascino sconcertati, non sono al di sopra di “qualsiasi possibile” congettura». Con questo motto di Sir Thomas Brownie (medico ed erudito del 600’) – contenuto in “Hydriotaphia, Urne-Burrial”, 1658 – si apre il celebre racconto di Edgar Allan Poe “I delitti della via Morgue” presente nella raccolta “The Fall of the House of Usher and others writings”.
A breve l’eroe della vicenda, l’investigatore monsieur Dupin, affronterà e risolverà l’incredibile caso delle due donne assassinate in una stanza rigorosamente chiusa dall’interno, lasciando così sbalorditi i poliziotti parigini. Ma prima di entrare nel vivo della storia, Poe si sofferma a scrivere una sorta di prologo filosofico alle straordinarie imprese del suo “detective”: spiegando quale sia la natura delle qualità “analitiche” e cosa significhi possederle.
«Le facoltà mentali definite analitiche, – dice dunque Poe, – offrono, a chi le possiede in misura eccezionale, una fonte continua di vivissimo godimento. Come un uomo robusto si esalta della propria abilità fisica, così l’analista di quella attività spirituale che consiste nel «districare» [“that moral activity which disentangles”]. Egli trae piacere da qualunque occupazione, anche la più banale, che possa mettere in moto le sue qualità: ama gli enigmi, gli indovinelli, i geroglifici, mostrando nelle soluzioni di ciascuno di essi un grado di “acumen” che appare del tutto sovrannaturale agli occhi delle persone comuni».
Dunque, dove la mente ordinaria si arresta, quella dell’analista si esalta. Solutore di complessi enigmi, l’analista è per eccellenza colui che districa matasse imbrogliate. Di fronte a due donne uccise in una stanza chiusa dall’interno, di cui una cacciata a forza nella cappa del camino e l’altra sfigurata da ferite che rivelano una forza straordinaria, Dupin concentra la sua attenzione su di una quantità di particolari sfuggiti all’attenzione degli inquirenti, e soprattutto tali che, almeno per una mente normale, non sembrano presentare “nessuna relazione” reciproca: cioè l’insolito ciuffo di capelli rimasto nelle mani di delle due povere vittime, poi la “strana” voce udita dai testimoni al momento del delitto,, infine l’unica, acrobatica possibilità di entrata e uscita dalla stanza che poteva essere disponibile all’assassino.
Da questi elementi Dupin, in modo del tutto imprevedibile, riuscirà a concludere che l’omicida non può essere che un orango entrato dalla finestra. E in effetti, è così! Il “detective” è intercambiabile con l’enigmista: e questo può accadere semplicemente perché il delitto compiuto nella “rue Morgue”, quello di cui occorre trovare il colpevole, è concepito da Poe esattamente come un enigma. Secondo Aristotele (“Poetica”, 2,2) la proprietà dell’enigma è la seguente: «legare fra loro delle cose che, pur essendo vere, non è possibile stiano insieme». Il risultato di questa connessione tra cose che (apparentemente) non possono averne nessuna, è una «per incredibilia confusa sententia», come sosteneva il grammatico Diomede (“un’affermazione tenuta insieme attraverso il ricorso all’incredibile”) [“Grammatici Latini, I, 451, Leipzig, 1868]; tal Diomede illustrava la sua definizione con un esempio per il nostro lavoro particolarmente significativo: «è nonna dei suoi figli colei che è la madre del marito, quando si tratta di Giocasta» →madre e poi moglie di Edipo da cui ha due figli e due figlie.
Pursuance of the work on Œdipus: Detective and King
Sulla base di quanto detto sopra appare ormai chiaro che il delitto, della cui inchiesta Edipo s’è assunto l’onere, ha la struttura di un enigma e che i fatti da esaminare paiono essere accaduti solo per “incredibilia”! La morte di Laio assume la forma di un “puzzle cronologico”, ondivago fra un passato nebuloso (che si tratterà di far emergere) e un presente non univoco bensì a struttura binaria. Edipo, che nel corso degli eventi tragici si autodefinirà al verso 1080 παἶδα τῆϛ Τύχηϛ (figlio della sorte) → quella benigna – aggiunge – con palese “ironia tragica” (da parte di Sofocle!) e per cui non ne uscirà disonorato, un passionale senza passioni (così almeno si ritiene fino al tracollo finale), si considera eccelso solutore di enigmi (pensava a quello postogli dalla Sfinge, che, risolto con superba intelligenza logica, lo aveva proiettato sul trono di Tebe e nel letto della vedova regina Giocasta); quindi nutre la marcata convinzione (apparentemente) di poter risolvere anche l’enigma-omicidio di Laio.
Ora nella focalizzazione dello sviluppo drammatico, il malanno della peste ha dunque ceduto il campo alla sua “causa”: un omicidio di cui occorre scoprire il colpevole. Conseguentemente il re, il baluardo della città, un “padre” generoso (non a caso si rivolge al popolo con l’emozionale appellativo «O figli»), il suo unico soccorritore, non può che trasformarsi in “detective”. Alla morte di Laio, dice Edipo, si sarebbe dovuta svolgere subito una «inchiesta» (“éreuma”): perché non lo avete fatto? Bisogna farlo adesso. E a questo punto, se non lo spettatore del V secolo, il lettore di oggi deve porsi lui quella “pericolosa” domanda onde evitare di aggiungersi alla numerosa schiera di coloro che nei secoli hanno concentrato la loro attenzione sugli aspetti progressivamente inquietanti e cruenti dell’eroe costretto dal destino a dover scoprire di essere lui l’uccisore del padre, lui il figlio incestuoso, lui il liberatore dal mostro sfingico, la rovina di Tebe!
Infatti l’analisi critica del testo sofocleo indica non solo un ampio uso della categoria del «doppio» applicata alla parola, alla frase e a interi periodi narrativi, ma segnala anche la sua estensione all’intera tragedia. In altri termini si evince, attraverso una lettura semiologica, capace di risemantizzare il testo, essere l’“Edipo Re” una «tragedia doppia» nel suo insieme, basata su di un impianto logico costringente, doppia come un sogno, a tratti chiara e coerente, a tratti del tutto ambigua e incoerente. Il doppio della tragedia, come i due piatti di una bilancia allineati su di un piano orizzontale, è in perfetto equilibrio tra due versioni che riguardano essenzialmente il tema del sapere/non – sapere: una versione, quella tradizionale del “non – sapere” dei personaggi; viene esposta in piena luce, mentre l’altra versione, quella del “sapere” dei personaggi, viene occultata in piena luce.
Però, delle due versioni della tragedia, Sofocle ha l’accortezza di mantenere in evidenza quella del “non–sapere”, la versione più edificante che e quindi anche la più rassicurante per chi si trova di fronte ai sotterranei dell’anima. Sulla base di queste considerazioni l’“Edipo Re” è da leggere tenendo presente il seguente motto: «Tutti i personaggi della tragedia sanno molto, molti sanno tutto, tutti fingono di non sapere».
Emergono così due aspetti fondamentali a livello interpretativo: lo “pseudos”→la menzogna-finzione e l’omertà! Non sappiamo per qual motivo la tragedia sofoclea fu sconfitta alla sua prima rappresentazione (nell’agone tragico la vittoria andò a un certo Filocle, un autore di cui non ci è pervenuto nulla e la cui figura si perde nella notte dei tempi). Non sappiamo se quel pubblico esigente non la comprese o, cosa più probabile, la comprese troppo bene da giudicarla blasfema.
Sta di fatto che, se quanto detto finora è plausibile, ho l’impressione che il vero enigma della tragedia sia la tragedia stessa, come se la Sfinge, prima ancora d’essere evocata in scena, si collochi all’entrata del teatro e interroghi lo spettatore sui delitti di cui la tragedia tratta, ponendo una domanda che metteva in gioco il fondamento stesso delle istituzioni sociali della “polis”: «i delitti commessi da Edipo furono voluti o non voluti?» Questo enigma mette a nudo non solo la debolezza delle regole istituzionali, ma si colloca su ben altro piano rispetto all’indovinello edificante attribuito dalla tradizione alla Sfinge senza che ve ne sia alcuna traccia nella tragedia.
Œdipus inquisitor under investigation: between lies and fear of truth
Giocasta: «Aver paura di che, se siamo in potere del caso? Se non possiamo prevedere nulla di chiaro?
La cosa migliore è vivere come viene! Perchè dovresti aver paura di andare a letto con tua madre?
Non sono che sogni: sai quanti hanno creduto in sogno di farlo con la propria madre?
Edipo dammi retta, si tratta di non tener conto di queste cose… e la vita diviene più semplice»
[Edipo Re, vv.977 – 983]
Sono queste le parole che Giocasta rivolge a Edipo, che ha perso l’apparente sicurezza dell’investigatore in cerca di prove per scovare il colpevole di quella sciagurata situazione della Tebe su cui regna. Il sovrano vuole ricomporre il suo passato col presente, la sua storia… i dubbi e le ansie cominciano a corroderlo; non ne conosce ancora il motivo con chiarezza e proprio questo lo affanna e assilla!!
E le parole di Giocasta gli suonano “strane”, aprono varchi nel suo animo. La sicurezza palesata dalla regina gli pare indurlo verso una scelta in totale contrasto con l’impegno assunto: trovare l’assassino di Laio e quindi liberare Tebe dalla pestilenza da una parte e dall’altra dopo i litigi con Creonte suo cognato e l’indovino cieco Tiresia e le accuse nei loro confronti di ordire una congiura contro la sua persona (ne parleremo in altra occasione), si spaventa e vuole saperne di più su di sé. Paradossalmente il motto delfico tanto venerato da tutti: «CONOSCI TE STESSO» si rivelerà per lui rovinoso!! Il rovesciamento della conoscenza di sé stessi presentata al pubblico ateniese da Sofocle non poteva non avere implicazioni “politiche”… come del resto le parole di Giocasta rivolte a lui, Edipo, solutore di enigmi e obbediente agli oracoli!!
Vediamo allora più da vicino l’assunto teorico delle parole di Giocasta → Non solo ella nega ogni validità alla mantica umana, ma mette persino in dubbio quella divina, e suggerisce, comunque, di sottoporre gli oracoli ad un’inchiesta indiziaria (terminologia tribunalizia ben espressa da un verbo come “tekmairesthai” → cercare indizi e valutarli → [prima volta nel mondo greco in cui l’umano intende valutare il divino attraverso metodologie d’indagine causidiche!]).
Tutto questo ricorda da vicino lo storico Tucidide (“La guerra del Peloponneso”) e il suo trattamento scettico degli oracoli del Pelargico (II, 17) e della drammatica peste di Atene (II, 54): in entrambi i casi egli segnala l’equivocità degli oracoli, la loro adattabilità alle circostanze più diverse, in definitiva la loro scarsa attendibilità.
Ma Giocasta, nonostante queste apparenze, non è una iper-razionalista. L’attacco agli oracoli non è condotto dal punto di vista di una razionalità profana che disponga di altre tecniche di previsione. Anzi la madre-moglie di Edipo rifiuta nettamente la possibilità di quella previsione (“prònoia”), che costituiva una struttura portante del sapere indiziario, tanto medico quanto storiografico: la previsione non raggiunge alcuna certezza (“saphès”) perché le cose umane sono dominate dalla sorte e dal caso (“tyche”). Il rovesciamento di prospettiva è radicale: Tucidide sostiene che il termine (“tyche”) non è altro che il nome che siamo soliti dare a quanto accade fuori della nostra previsione razionale e segnala quindi unicamente una provvisoria “défaillance” del “logos”(I, 140). Il richiamo al dominio della “tyche” rovescia dunque l’apparente iper-razionalismo di Giocasta in un irrazionalismo; il sapere divino dell’oracolo non viene negato in nome di una conoscenza razionale, ma contro ogni forma di conoscenza.
L’ultima parola di Giocasta si rivela chiarificatrice: ad Edipo che ha rivolto l’indagine su se stesso, ella dice: «È meglio che tu non sappia chi sei» (v. 1068). Ma questo, ci chiediamo noi, vale solo per Edipo? Giocasta sa? Proprio qui sta la grandezza di Sofocle!! La creazione di una dimensione tragica che si sposa con una sorta di “mystery story” dove l’investigatore compulsivo finisce “under Investigation”… Eschilo aveva sostenuto nel suo universo tragico che “to pàthei màthos” → “attraverso il dolore la conoscenza”, qui invece vale l’opposto → il sapere annienta.
Nella Bibbia leggeremo che “Scientia auget dolorem” → “la conoscenza accresce il dolore”!! Giocasta si avvale dunque di strumenti concettuali raffinati (la polemica razionalistica contro gli oracoli, l’opposizione “Tyche vs Prònoia” → Sorte-Caso vs Previsione) opposti fra loro ma convergenti nell’unico fine di occultare la verità, di proteggerla dalla penetrazione indebita di qualsivoglia sapere , umano o divino che sia. In qualche modo, ella sa che la verità non deve venir conosciuta: ma le forme misteriose di questo suo larvale sapere non passano attraverso l’inchiesta dello sguardo e della parola. Esse giacciono probabilmente nei solchi che l’“aratura” e la “semina” di padre e figlio hanno tracciato sul suo corpo.
Tra letteratura e antropologia: il nome “EDIPO”. storia di un eroe colpevolmente innocente.
È propria dell’antica mentalità greca la credenza in una specifica correlazione fra il nome e l’oggetto che esso designa, e, similmente, tra il nome proprio e la persona. Per questa ragione, nell’ambito della produzione letteraria greca arcaica, il nome proprio di dei e uomini è spesso un “nome parlante” (ἑπώνυμον → eponimo) , cioè trasparente nel suo significato, in quanto indica esattamente ciò che significa. In altre parole, si tratta di nomi in cui “significante” e “significato” coincidono, vale a dire di nomi indicanti-rivelanti ciò che la persona è, la sua essenza.
Tale è, appunto, il caso del nome Edipo [Оỉδίπᴏυϛ scomposto nei suoi elementi – Оίδ(ɩ) <ᴏỉδέω → sono gonfio e πᴏύϛ → piede – significa “piede gonfio”]. Questo nome, dunque, rileva un elemento distintivo della persona, cioè accentua ciò che Edipo è: un uomo dai piedi gonfi. Ora questa è la posizione assunta dai tutti i più insigni grecisti del mondo!! Trovo personalmente alquanto strano che a fior di studiosi sia clamorosamente sfuggito che il verbo <ᴏỉδέω (oidèo) possiede anche un altro significato : “sono in agitazione, in fermento”, insomma un legame con il campo semantico di un movimento irrequieto!!!
Ciò non esclude affatto il “gonfiore” che troverà diverse conferme come vedremo e tutte suffragate dagli avvenimenti toccati in sorte al piccolo Edipo fatto abbandonare sul monte Citerone da un pastore per ordine di suo padre Laio con i piedi traforati affinchè lì morisse (eliminando così il pericolo annunciato dall’oracolo delfico → se Laio avesse avuto un figlio da Giocasta costui l’avrebbe ucciso!!). Ma a rendere ragione della duplicità di tutta la storia anche l’ipotesi di “piedi in agitazione” per indicare l’incapacità di Edipo di rimanere appagato da una dimensione stanziale e quindi sempre “on the road” per la sua irrequietezza che dai piedi si trasferisce nell’animo in perenne subbuglio!! I piedi del Nostro (gonfi o “in agitazione”) focalizzano comunque un tratto rappresentativo della sua essenza di uomo: la storia del suo nome non è che quella della sua vicenda personale, la storia della sua “tragedia”.
Vorrei ricordare che di questa mia parallela interpretazione ebbi la fortuna di parlarne con un gigante del pensiero quale fu Michel Foucault nel periodo in cui frequentavo a Parigi i suoi corsi al Collège de France e fui da lui incoraggiato a proseguire su questa strada!!! La sua smisurata cultura, le sue superbe lezioni furono per me un appoggio di un livello mai più neppure sfiorato e di cui gli sarò grato per sempre! Mi scuso per questa breve parentesi autobiografica, ma tra le poche cose di cui posso menar vanto questa resta nella mia memoria una di quelle!
Come abbiamo visto la storia del nome Edipo coincide con quella della sua vicenda personale, una storia che pone in primo piano la sua dimensione tragica. Tale susseguirsi di fatti viene ora dispiegato nella scena con il messo Corinzio (vv. 1032-1036 ); dalle notizie che Edipo ottiene, attraverso un serrato interrogatorio, egli arriva a conoscere, con la sua origine di trovatello abbandonato, l’origine del suo nome: il messo narra di averlo trovato “con le estremità dei piedi traforate” (v. 1034); da questa sorte toccatagli, è stato chiamato “quale egli è” (v.1036). La mutilazione subita sarebbe alla base del suo caratteristico gonfiore ai piedi, onde il nome “Oidìpous”.
Inizia dal nome il recupero della propria essenza, della propria identità. Occorre, adesso, chiarire la peculiare portata di questa mutilazione per una comprensione più profonda del significato che la figura di Edipo con tale nome acquista nel contesto complessivo della vicenda tragica. Intanto si può osservare che un valido indizio a riguardo è procurato proprio dalle parte del corpo su cui è stata realizzata la menomazione che, inevitabilmente, comporta un “blocco”, un impedimento nel movimento (pur senza dimenticare l’inquieto desiderio del Nostro di “procedere” verso un’oltranza vieppiù pericolosa…).
Anche le metafore linguistiche portano in questa direzione: in greco, frequente è l’uso di termini in cui la nozione dell’ “impedire” o “trattenere” viene realizzata tramite quella di “piede”. Così, ad esempio, “empodìzein” significa: “chiudere i piedi in ceppi”, cioè “impedire, ostacolare (il movimento dei piedi)”; similmente gli aggettivi e sostantivi derivati, quali: “empòdios” (“che è d’impedimento, dimpaccio”), “empòdisma” (“impedimento”), “empodismòs” (“l’impedire”) etc. Tenuto conto di ciò, la mutilazione ai piedi di Edipo e il nome che genera hanno un significato ben più ampio rispetto a quanto può sembrare ad una prima analisi: Edipo è un personaggio che deve essere impedito, ostacolato nel movimento, al fine di evitare un possibile cammino che lo veda raggiungere il padre Laio che è destinato a uccidere e la madre Giocasta che è destinato a sposare. Per ostacolarlo, dunque, lo si colpisce proprio ai piedi, cioè nel luogo di “impedimento” per eccellenza. Edipo è, pertanto, “l’uomo impedito nei piedi” che tuttavia percorre il cammino tragico assegnatogli dalla “tyke” (“la sorte”).
Attendibile e particolarmente significativa risulta anche un’altra etimologia, e un’altra spiegazione, per il nome “Oìdipous”: essa consiste nel far derivare il primo elemento del composto da “oìda” → “sapere”. Di qui il significato di “colui che sa”. Il secondo elemento del composto, “poùs”, (piede) , richiamerebbe una componente distintiva dell’enigma della Sfinge: questa, infatti, chiedeva (pena la morte!) quale essere avesse “due, quattro e tre piedi” (l’uomo). Secondo questa diversa interpretazone etimologica, “Oìdipous” verrebbe a significare, all’incirca: “colui che sa dei piedi”. In tal caso, il nome Edipo recherebbe in sé traccia di un’altra delle vicende fondamentali dell’esistenza di quell’uomo così chiamato, vale a dire la risoluzione dell’enigma sfingico: egli è stato l’unico in grado di “sapere” cosa simboleggiassero i piedi, nella loro differente quantità. Ciò testimonia in lui quella “sollertia ingenii” (prontezza dell’ingegno) che gli ha procurato una posizione di privilegio presso i Tebani (divenire Re e sposare la regina vedova), “sollertia” che pure contribuisce a segnare il suo “cammino” tragico!
Le interpretazioni del nome danno ragione dell’essenza del personaggio e, insieme, alludono ai momenti salienti della sua vicenda. Inoltre rispondono a talune verità sul piano delle credenze culturali in senso antropologico: troviamo testimonianza, in personaggi del mito, di una correlazione alquanto stabile tra la menomazione ai piedi e il possesso di qualità mentali straordinarie.
Si pensi ad Efesto (cfr. ad esempio “Iliade” 18, vv. 394-397), il noto dio zoppo (“kullopodìon”) o (“anfiguéeis” → “zoppo ad entrambi i piedi”): in maniera significativa ad esso sono associati epiteti quali quelli attribuiti a Odisseo (molto saggio, astuto, intelligente, ingegnoso) denotanti il possesso di multiformi capacità intellettive che si concretano in una sorprendente abilità demiurgica: (cfr. “Iliade”, 18, 468-616) in cui Efesto è impegnato nella fabbricazione delle famose armi di Achille e “Odissea” 8, 266-366 dove lo vediamo immerso nell’ingegnosa preparazione della trappola per Ares e Afrodite → operazioni che presuppongono una sorvegliata intelligenza e sagacia, doti assai simili a quelle odissiache!
Interessante il fatto che Efesto condivida con Edipo, oltre la menomazione podalica e le peculiari qualità mentali, anche una vicenda di “abbandono”, per così dire: secondo la versione iliadica, infatti, fu precipitato dall’Olimpo dalla stessa madre (Era-Giunone) in quanto zoppo. Altro esempio mitico è Melampo (“dai piedi neri”): come Edipo (e un po’ come Efesto) è un bambino “esposto” i cui piedi, per dimenticanza da parte della madre, furono lasciati bruciare al sole, onde il colore nero delle estremità, implicito nel suo nome →(mèlas = nero/ pòus = piede). Ma, a questo difetto ai piedi, si accompagnano doti intellettive particolari: egli conosce il linguaggio degli animali, possiede facoltà divinatorie e di guaritore! (cfr. Esiodo, “Catalogo delle donne”, fr. 37, 14 e Apollodoro, “Biblioteca”, 1. 9, 11-12).
Tale correlazione fra sviluppate capacità mentali e menomazione ai piedi, testimoniata dai personaggi mitici, può spiegarsi sul piano antropologico in questi termini: lo zoppo, l’uomo impedito a livello “locomotorio”, ha di fatto più necessità e opportunità di sviluppare le proprie doti intellettuali; diviene, perciò, capace di muoversi e camminare su di un terreno intellettuale o tecnico che ai sani sovente rimane precluso. Si tratta, a ben guardare, di un tipo di rapporto simile a quello instaurantesi tra menomazione agli occhi [cecità] e sviluppo di peculiari qualità mentali come le doti profetiche che consentono di vedere con gli occhi interiori → si pensi ad esempio a Tiresia, l’indovino cieco, che avrà non poca parte nella rivelazione-accusa verso Edipo.
Sulla pase di quanto detto, per ciò che concerne Edipo, possiamo dunque accogliere le tre interpretazioni del significato del suo nome: da un lato, nella logica del mito, Edipo “, che ha piedi gonfi”, è anche “colui che sa dei piedi”; dall’all’altro, “piedi agitati, in tensione verso percorsi ignoti”, perfettamente coerente con le credenze collettive, per cui ad uno zoppo compete una forma superiore di intelligenza esplorativa! Vi è ancora un altro tratto caratteristico dell’ “eroe dai piedi gonfi”, il cui significato va considerato nel panorama che l’antropologia applicata allo studio delle “ancient beliefs” ha evidenziato.
Secondo queste ultime esiste una marcata relazione tra il difetto fisico della zoppìa e la tendenza caratteriale alla voluttà e trasgressione sessuale! Anche di ciò troviamo conferma in alcuni miti di eroi greci. Ad esempio , nelle vicende piuttosto truculente di Telefo e Licurgo. Del primo si racconta che, uccisi gli zii materni (un delitto dunque in seno alla famiglia), rischiò di commettere incesto con la madre; contestualmente egli, nel mito, risulta zoppo (cfr. Apollodoro, “Biblioteca” 2. 7. 4). Licurgo invece, in preda ai fumi del vino cerca di violentare la madre; anch’egli contestualmente si azzoppa (cfr. Igino, “Fabulae”, 132).
Approfondimenti sul ruolo dei piedi nella “nuova famiglia” di Edipo: psicanalisi e antropologia folklorica
A questo riguardo si può osservare che luogo comune del costume popolare greco (e non solo) e della psicanalisi è la relazione tra piedi e genitali. Ho analizzato tale genere di connessione in rapporto al significato della mutilazione, da cui proviene il nome “Edipo”. In quanto i piedi risultano simbolo degli organi genitali maschili, sono il luogo più adatto alla mutilazione, onde impedire, specificamente, l’incesto profetizzato dall’oracolo!
Ma se noi approfondiamo il tema della claudicazione (anche come esito della zoppìa), ci accorgiamo della presenza di un difetto ai piedi presente nelle ultime tre generazioni dei Labdacidi. Rispettivamente: Làbdakos, nonno di Edipo e padre di Laio a sua volta padre di Edipo; i primi due hanno un nome che in greco inizia con la lettera maiuscola “lambda” → Λ e minuscola → λ che nella simbologia grafica greca designano le due gambe in modo diverso (la sinistra più corta!) e quindi una locomozione non in equilibrio! Λàbdakos o λàbdakos è lo zoppo, squilibrato nel camminare per non avere le gambe uguali; Λàios/ λàios è l’asimmetrico, il “sinistro”, entrambi con tendenze omoerotiche.
Làbdaco , lo zoppo, muore quando Làio ha solo un anno; per cui viene interrotta la comunicazione padre-figlio e con essa la legittima linea di successione: il trono di Tebe va ad un estraneo di nome Lico (ancora la lettera làmbda iniziale → Λ / λ → Lùkos , in greco veniva chiamato il lupo affetto da zoppìa, feroce e sanguinario → si crea, dunque, una incomunicabilità generazionale e totalmente diseducativa (Lico, narrano gli antichi mitografi, prediligeva rapporti omoerotici violenti…).
Làio, il sinistro, divenuto adulto, si rivela “squilibrato” nelle sue relazioni sessuali, orienta il suo comportamento erotico sul piano di una marcata omosessualità che lo porta (nel frattempo è lontano da Tebe) fare violenza al figlio di Pelope (di nome Crisippo → “cavallo dorato”), suo ospite. Làio vuole continuamente “stuprare” il bellissimo e dai capelli biondo-oro per via anale →(“a retro more ferarum” chiosa un frammento di un antico tragico latino (Accio). Questo personaggio brutale (Làio) esige di masturbare Crisippo con i piedi, e una volta inondati di sperma lo obbliga a leccarli!! Làio infrange così le regole di “simmetria” e reciprocità esistenti sia fra amanti che tra ospiti, e in seguito al suicidio del giovane violentato, Pelope lo caccia con una maledizione (per noi fondamentale): la sua stirpe dovrà estinguersi con un caos parentale tragico!! Il rapporto zoppìa–trasgressione sessuale prende vieppiù forma!
Tornato a Tebe e ristabilito sul trono (Lico era morto) sposa Giocasta ma viene ammonito da un oracolo a non mettere al mondo figli. Pena: la generazione di un figlio che lo ucciderà e giacerà con la madre, cioè la generazione di un “mostro” (incomunicabilità sessuale). Giocasta è al corrente di tale vaticinio e di conseguenza i due sposi si accordano di evitare rapporti sessuali penetrativi e alternano rapporti orali che a Làio non sono particolarmente graditi con masturbazioni podaliche reciproche (al nuovo Re preferiti in quanto gli ricordano il giovane Crisippo!! Poi una sera Làio ubriaco, nonostante i dinieghi di Giocasta, la possiede con la sua consueta violenza e la incinta! Nascerà un bimbo che nel tempo sarà, ma non da loro, chiamato Edipo! Come vedete il ruolo dei piedi si rivela capitale! Così come la connessione piedi-genitali!
Ad esclusione di Giocasta (lei non è zoppa ma partecipa con i suoi piedi…), Làbdako, Lico, Làio e poi Edipo sono claudicanti e trasgressori sessuali!! Paradossalmente l’unico a vivere un eros “freddo” e distaccato è quello che si rivelerà l’esecutore dell’augurio nefasto di Pelope → parricidio / incesto!! Il caos parentale di cui pagherà il prezzo più alto pur non avendo agito consapevolmente.
Apro una breve parentesi sulla contemporaneità: a partire dalla pubblicazione a Stoccarda nel 1886 da parte dello psichiatra R.F. von Krafft-Ebing del grosso volume PSYCHOPATHIA SEXUALIS e, a prescindere da certa innovativa psicologia anglo-americana, la masturbazione con i piedi e più in generale l’impiego e l’attrazione erotica esercitata dalle estremità (più femminili che maschili) viene considerata una “parafilia” o perversione sessuale!!! Oggi psicanalisti, psicoterapeuti, psichiatri e psicologi (quelli che conoscono e hanno studiato l’eros nel mondo antico) hanno derubricato tale forma di erotismo dalle parafilie (purché non unica forma di rapporto sessuale) inserendola assieme ad altre manifestazioni nel più complessivo “ludus” erotico!!! Come era giusto e normale che avvenisse! Ovviamente n
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