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Gardenio Granata, Leopardi filosofo: il pensiero poetante nel «Canto notturno»

In sei mesi, dal 29 Ottobre 1829 al 30 Aprile 1830, nella ‘notte orribile’ di Recanati, Leopardi compone il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, traducendo in lirica non un soggetto già lirico di per sé, come l’amore o la natura, ma un soggetto apparentemente refrattario alla lirica stessa, come il pensiero o le idee. Queste idee che ‘cantano’, come sostenuto con la consueta lucidità da Leo Spitzer, nella forma leopardiana sciolta dallo schema strofico fisso e dalla rima, rappresentano in certo modo una novità assoluta e di fatto un’anticipazione del ‘programma’ moderno della poesia.

Nei “Canti”, e soprattutto nel “Canto notturno”, Leopardi è in effetti sommo filosofo moderno e perfetto poeta, cioè porta a compimento, con il suo ‘talento individuale’ avrebbe detto Eliot, e in modo del tutto nuovo, ciò che la tradizione, lo statuto stesso della poesia gli suggeriscono, da Petrarca in poi. Così, immediatamente, nella prima strofa del Canto, Leopardi stabilisce un’analogia tra l’essere della luna e l’esistere del pastore: l’andare e ‘riandare’ della luna nella sua eterna strada celeste, dalla sera all’alba, somiglia all’andare del pastore “pel campo”, e nel tempo stabilito, dall’alba alla sera.

Che cosa significa? Come è possibile che un essere umano, affaticato e dolente, assomigli a un impassibile corpo celeste? che ciò che vive e muore assomigli a ciò che non muore? Fernando Pessoa, lettore d’eccezione di Leopardi, in un suo testo ipotizzò che le stelle a un certo momento si stanchino di essere stelle, si annoino del loro eterno, triste ‘brilhar’: una congettura anticipata da Leopardi stesso nel “Cantico del gallo silvestre”, dove la creazione finirà, proprio come gli uomini, e nel “Dialogo di un fisico e di un metafisico”, dove Chirone, annoiato dell’immortalità, «piglia licenza di morire» da Giove e muore.

L’eternità, come il tempo, finirà per stanchezza e noia, cioè nel ‘finire’ sarà ultimamente, e paradossalmente, simile al tempo. Allo stesso modo, luna e pastore sono vicini e simili nel loro ‘andare’ – andare avanti dall’alba al tramonto, dal tramonto all’alba – che è propriamente e in effetti: andare verso il nulla. Ma, non appena detto questo, nella stessa strofa Leopardi distingue e oppone luna e pastore, vita terrena e vita ultraterrena:

“ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?”

Se la cifra del Canto notturno è l’interrogazione e il dubbio, più che l’asserzione o la tesi, qui invece proprio la domanda, distinguendo nettamente essere della luna ed esistere del pastore, ha il timbro dell’asserzione: il fine della vita umana è altro rispetto al fine degli immortali. La domanda implicitamente dichiara cioè il contrario di quanto abbiamo appena letto nei versi 9-10: «Somiglia alla tua vita | La vita del pastore».

Nella stessa strofa, Leopardi ci dice che la luna assomiglia al pastore e che la luna non assomiglia al pastore. Che cosa significa? Innanzitutto, ciò che ci appare una contraddizione è il nucleo stesso del pensiero di Leopardi nel Canto notturno: analogia e differenza sono la condizione di una comprensione profonda tra la luna e il pastore. L’intimità straordinaria – amorosa – che lega luna e pastore nella domanda iniziale posta dal pastore («Che fai tu, luna, in ciel?») contiene analogia e differenza proprio come in una relazione d’amore analogia e differenza sono contenute insieme. Sappiamo dunque, subito, di trovarci in una scena obliquamente amorosa, come se Leopardi dicesse: io amo ciò che è eterno, io tengo l’eterno stretto tra le mie braccia.

La luna stessa peraltro è detta «vergine», «giovinetta immortal», «candida», come se fosse la donna amata, e intimo fosse il carattere di questo amore che postula e ammette domande improvvise, apparentemente incongruenti ma plausibili in un discorso segreto, indefinitamente in atto: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai?». Ma la domanda è anche:

“a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi?”

Nell’intimità stessa si dichiara cioè una assoluta differenza non solo dei fini, ma anche del quotidiano «riandare» della luna e «vagare» del pastore. Alla domanda dell’uomo in pena, bisognoso d’amore e grazia (a che serve la mia vita? perché io sono qui? dove sto andando?) succede la domanda del filosofo, che azzarda la sua stessa “curiositas” fino all’essere in sé (a che serve il tuo essere? perché tu sei tu? perché tu sei ciò che sei?).

Qualche critico, anche riferendosi all’ “exemplum” petrarchesco della “Canzone alla Vergine”, ha parlato qui di preghiera, nella forma della supplica o nella forma eucaristica o dossologica: un insieme di sentimenti e appelli con cui ci rivolgiamo al divino nel silenzio e nella solitudine. Ma niente è più lontano dal Canto notturno, nonostante la venerazione e il calco strutturale da Petrarca, dell’idea di supplica, o di ringraziamento, o di lode, cioè di preghiera. Né la preghiera, in sé, prevede l’inchiesta sul ‘perché’ e sul ‘dove’ («ove tende… | Il tuo corso immortale?») né l’interrogazione capitale sull’essere caratteristico della filosofia. Così, se la domanda del pastore si fermasse al primo termine – «ove tende / questo vagar mio breve?» – potremmo parlare effettivamente, e formalmente, di preghiera, secondo la tradizione e a partire, ad esempio, da Agostino. Ma qui la domanda, nel secondo termine («ove… ?»), si inoltra in un mondo più ignoto o assolutamente ignoto rispetto all’altro mondo di Agostino, di cui dopotutto può dirsi che è il ‘regno di Dio’. Dimodoché, a una distanza incommensurabile da Agostino, Leopardi immediatamente realizza il suo sogno laico: essere sommo filosofo moderno, poetando perfettamente.

La seconda strofa («Vecchierel bianco, infermo…») e la terza («Nasce l’uomo a fatica…»), dichiarano un principio generale messo a punto pochi mesi prima della stesura del Canto, nella famosa ‘notte orribile’: «Che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale?», e in qualche modo arretrano al nichilismo fondamentale ben noto ai lettori di Leopardi. Da una parte un vecchio, che troviamo già in una nota dello Zibaldone bolognese del 17 gennaio 1826, cammina su altissimi monti e lungo aspri sentieri, esposto alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, e corre «senza posa» verso un precipizio, cioè verso il nulla. Dall’altra, un bambino nasce e deve essere subito consolato d’esser nato dalla mamma e dal papà.

La domanda stessa di Leopardi a proposito di questo bambino («Perché reggere in vita / Chi poi di quella consolar convenga?») è una domanda retorica, cui conviene la risposta di Eschilo o di Qohélet (e infine di Tristano nelle Operette morali): meglio non essere nato, non essere niente. Se il vecchio precipita nella morte-abisso («orrido, immenso») e il bambino si inoltra nella vita in un crescendo di infelicità, la vita che «si dura», cioè si mantiene dolorosamente in sé consumandosi nel nulla, è in generale un assurdo. Inoltre: il paragone del vecchio è tratto da Petrarca, dove rispettivamente un «vecchierel» e una «vecchiarella pellegrina» si affrettano l’uno in pellegrinaggio a Roma, l’altra verso «alcun breve riposo», cioè verso la sua piccola cena e il suo letto.

Ma Leopardi sottrae al suo personaggio il senso stesso del movimento, o la pura felicità del movimento (da ‘un impulso a una meta’, come dirà la “Lebensphilosophie”): il suo personaggio si affretta e anela verso niente, e cade nel niente. È come se Leopardi, di fronte alla tradizione, e di fronte al suo Petrarca, traducesse l’andare verso una meta degli antichi con l’andare verso niente dei moderni, e ‘niente’ fosse precisamente la nuova forma del volto di Cristo (nel caso del «vecchierel» petrarchesco) o del «riposo» (nel caso della «vecchiarella»).

Il ricorso a Petrarca è, ad ogni modo, molto significativo. Leopardi eredita da Petrarca questo ‘tipo’ di un vecchio che corre, come il giorno corre verso la sera o la vita stessa corre verso la fine della vita, ma nella sua versione del ‘tipo’ qualcosa si incrina: Petrarca e la tradizione cristiana rappresentano cioè un mondo contiguo ma del tutto sfuggente e irrecuperabile. E nel «vecchierel» del Canto notturno Leopardi esprime non la fede ma la nostalgia della salvezza, in particolare della promessa religiosa della salvezza. (Le religioni, peraltro, leggiamo nello Zibaldone, illudendoci relativamente alla nostra salvezza, in qualche modo ci salvano qui e ora, sottraendoci alla disperazione della nostra mortalità. Sopra tutte le altre, la religione cristiana, «estrema e dolce tra le illusioni», se da una parte ci inganna trasferendo il ‘bene’ della felicità da questo all’altro mondo, dall’altra ci consola e cura il male stesso della nostra vita).

Ma il profondo significato religioso e cristiano del “Canzoniere”, nella sua integrità, non è recuperabile né riscontrabile in Leopardi. La cognizione del nulla, evidente in queste due strofe (seconda e terza) non può che tradursi in immagini nette e sentenze nette, senza appello, e si rispecchia finalmente nell’indifferenza della «intatta» luna, «vergine», «immortale», lontana, estranea: «E forse del mio dir poco ti cale». Anche il tono di queste strofe non ha nulla dell’inflessione carezzevole della prima strofa, né del suo azzardo metafisico, né della sua inquietudine o addirittura incertezza concettuale (la luna, ricordiamo, era lontana e vicina, il suo stesso silenzio celava un traccia di senso…).

Il tono di queste due strofe è invece del tutto assertivo e gnomico, e ha qualcosa dello stile che Todorov chiamerebbe ‘valutativo’, in opposizione allo stile ‘emotivo’, per cui, in un certo senso, non esistono discorsi non ‘emotivi’. E un pizzico di ‘emotività’ si rintraccia, dobbiamo ammettere, anche nel ritratto a matita copiativa del «vecchierel bianco, infermo» della seconda strofa, nel suono dolce ma perentorio della tradizione italiana, nella nostalgia di un modello – Petrarca – sfuggente ma immensamente amato. La quarta strofa, con il suo “ma”, con la sua avversativa iniziale («Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei…»), restaura tuttavia intera la relazione di intimità tra il pastore e la luna, e ritrova la nota musicale, la dolcissima vibrazione d’ansia della prima strofa. La luna è una «giovinetta immortal», e «intende», «comprende», «sa», «conosce», mentre il pastore «non sa» e di nuovo pone domande intime e vertiginose come quel primissimo «che fai?»: «a che tante facelle?», «che fa l’aria infinita?», «che vuol dir questa solitudine immensa?», «ed io che sono?».

Non è un caso, peraltro, che Leopardi, qui e nell’intero canto, tenga legate insieme emozione e conoscenza secondo una teoria o ‘ideologia’ delle idee elaborata giovanissimo (nel settembre del 1821), di evidente ispirazione settecentesca, per cui le idee innate propriamente non esistono, poiché «Niente preesiste alle cose. Né forme, o idee, né necessità né ragione di essere». In effetti, le idee, così come sono, non hanno alcun fondamento al di fuori dell’ordine delle cose, «non dipendono da altro che dal modo in cui le cose realmente sono», e anzi «derivano in tutto e per tutto dalle nostre sensazioni, dalle assuefazioni» e dunque non hanno «verun fondamento universale ed eterno e immutabile». E circa il linguaggio poetico in relazione alle idee: «non v’è azione o idea umana, o cosa veruna la quale non cada precisamente sotto i sensi».

Detto questo, considerato il senso di quel ma o pur («Pur tu…») che ricuce il legame di emozione e conoscenza della prima strofa, la quarta strofa subito scatta oltre, verso un nuovo orizzonte concettuale. La prima strofa, si è visto, insisteva sulla “vanitas”: come in Qohelet, dove «il sole nasce e muore» e morendo «si affretta al luogo in cui rinasce», così la luna di Leopardi percorre eternamente lo stesso sentiero celeste e eternamente guarda di lassù gli stessi sentieri terrestri (con una conferma nella quarta strofa, dove il pastore si domanda perché la luna torni ‘sempre là’, nel punto in cui parte). La “vanitas” è un tema antico, e un tema costante in Leopardi: vano è il ‘giro’ di ogni corpo celeste, vano è il tempo in cui questo ‘giro’ si compie, vano è l’universo «il qual di lode | colmano i saggi», vano è il mistero stesso di questo universo.

La “curiositas” del filosofo («Che fai tu?») non scalfisce la vanitas universale e il suo correlativo apocalittico di deserti, macerie, ‘vacui teatri’ (Pascoli) presenti nei “Canti”. Vana, allo stesso modo, è la vita coi suoi ‘dì anniversari’ e il ‘dì festivo’ non diverso dal ‘giorno volgar’, vana è la vita individuale, che passa, sospinta e sostituita eternamente da altre vite individuali: «Passasti. Ad altri | Il passar per la terra oggi è sortito…». Ma il «Pur tu» della quarta strofa rovescia anche questa “vanitas”. Che significa ‘intendere’, se non c’è nulla da intendere? D’altra parte, contro ogni evidenza, qui la luna ‘forse intende’ e accede a significati che oltrepassano l’idea stessa di “vanitas”. Intende perlomeno il «patir nostro», cioè la nostra infelicità di viventi; il nostro «venir meno», cioè la nostra morte; e infine lo spazio, la «stanza | smisurata e superba», e il tempo, il «tacito, infinito andar del tempo» che probabilmente ed eccezionalmente è visto sub specie teleologica più che ciclica. L’infelicità, dunque:

“Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia…”

Che l’uomo, più che diventare sapiente, o virtuoso, voglia essere felice, e non possa esserlo, è il più grave scandalo per Leopardi. È inaccettabile che l’uomo, sospinto naturalmente verso la felicità, ne sia metodicamente allontanato. Peraltro, la felicità è il grande argomento di tutte le filosofie o antifilosofie materialistiche: dal poligrafo Fontenelle alla scienziata marchesa du Chatelet, da Gassendi «homme tout de chair» (secondo Cartesio) al visionario La Mettrie, dal libertino Saint-Evremond, innamorato della ‘distrazione’, a Voltaire, per più di un secolo non si scrivono che trattati, saggi, lettere sulla felicità. Ma ciò che a un Settecento di stampo tecnicamente libertino pare una strategia possibile per il conseguimento di un bene, a Leopardi pare un sogno impossibile.

Come quei ‘filosofi’, anche Leopardi scrive il suo trattato sulla felicità (disseminato tra i fogli dello Zibaldone – soprattutto dal ’23 al ’25 – ma non privo d’una sua verve sistematica). Ma la loro strategia si polverizza in analisi: se l’uomo desidera ‘infinitamente’ la felicità, o desidera una felicità infinita, e un tale desiderio è ‘irrealizzabile’, la contraddizione è nella natura ‘insensibile’ e nel suo ordine che in nessun modo è diretto alla felicità degli ‘esseri sensibili’, ma invece alla sua propria conservazione. La sola felicità ‘realizzabile’, dunque, è quella negativa, «cioè la mancanza d’infelicità» che proviamo nei momenti di letargia o di stupore, cioè quando non sentiamo «in niun modo la vita», oppure quando siamo distratti e non pensiamo o non siamo in noi stessi.

Ora, la sorpresa è che questo articolato ‘sistema’ leopardiano sulla felicità non coincide tuttavia con ciò che, forse, la luna ‘intende’ sulla felicità stessa, anzi sul radicale ‘patire’ dell’uomo privo di felicità. Inoltre, il tutto conosciuto dalla luna, anche in relazione alla felicità («Ma tu per certo, | Giovinetta immortale, conosci il tutto»), non ha nulla a che fare con le cognizioni parziali e materiali del pastore e con il nichilismo e il relativismo elaborati nello Zibaldone.

Così, allo stesso modo, la morte è innanzitutto e in generale ‘bella’ e ‘pietosa’ in quanto unico traguardo dell’infelicità (in “Amore e morte” il poeta stesso vuol piegare «addormentato il volto | Nel suo virgineo seno»). La ‘vita-dolcezza di miele’ di cui con una certa nostalgia parla l’ombra di Anticlea dalla sua sede di immortale, si tramuta in Leopardi in ‘vita-male ordinario’ che solo la medicina della morte e del nulla può curare. D’altra parte, proprio in questa strofa, Leopardi ci dice che la morte, che in se stessa può dirsi ‘grazia’ e ‘bene’, è tuttavia il male più atroce in quanto umilia e annienta la società e il legame dei vivi, divide per sempre «ogni usata, amante compagnia», crea vuoti incolmabili nel mondo.

Così di Nerina, nelle “Ricordanze” (composte nel medesimo 1829), leggiamo: «passasti», «tu passasti, eterno | sospiro mio» e poi disperatamente: «Ove sei?», come se ignorassimo che l’uomo può unicamente essere sulla terra, non certo nel non-luogo in cui non è Nerina. «Passare rapidamente», come Nerina; inoltrarsi e «peregrinare» nel nulla «lunge dai cari suoi», «dileguarsi», come la bellissima giovinetta della prima “sepolcrale” (composta dopo il 1831): «Questo – scrive Leopardi – se all’intelletto | Appar felice, invade | d’alta pietade ai più costanti il petto». Anche nello Zibaldone, peraltro, Leopardi studia soprattutto gli insopportabili effetti sociali della morte, il punto di vista di chi, «abbandonato in terra», rimemora e piange l’essere vivo di chi è stato e non sarà mai più. Ma ciò che qui, nel “Canto notturno”, «intende» la luna del significato stesso del «venir meno» e «perir dalla terra» non è ciò che intende Leopardi (o il pastore) sulla disperazione di chi sulla terra rimane, solo e inconsolabile.

È invece una specie di significato generale dell’esistenza («il perché delle cose»), o di inaccessibile verità sulla morte, che solo le religioni o le rivelazioni o, da ultimo, i grandi miti romantici dichiarano di possedere. Come il velo di Isis nei romantici tedeschi, così la luna di Leopardi custodisce una verità che tuttavia non prevede una “quête” o una disciplina o un codice d’accesso rituale per rivelarsi. La luna-vergine di Leopardi, che «forse intende» e «certo comprende» e «mille cose sa» e «conosce il tutto», né si rivela né ci soccorre. È un inaccessibile scrigno di senso la cui unica consolazione e risorsa per il pastore è quella di stare, al confine del cielo, eternamente visibile e interrogabile. Così, che cosa sa esattamente la luna del tempo e dello spazio? Il frutto «del mattin» (tempo) e il profondo «seren» (spazio), che per Leopardi sono solo nomi, per la luna sono cose e vogliono dire («che vuol dir?»), cioè significano, cioè hanno un senso e un’evidenza in se stessi.

Nomi, per Leopardi: tempo e spazio sono «accidenti delle cose», logomachie di metafisici, prive di un’esistenza indipendente e reale se non nel nostro intelletto. Se non esistesse l’orologio, leggiamo nello Zibaldone (14 dicembre 1826), non esisterebbe il tempo; se non esistessero cose che «stanno» e «dimorano», non esisterebbe lo spazio. In particolare, Leopardi è lontanissimo dalla concezione classica e progressiva del tempo (un tempo che infine si consumerà nell’eternità) e dalla concezione kantiana del tempo come oggettività trascendentale: con i suoi empiristi, Leopardi sa che il tempo è da una parte una pura finzione intellettuale, dall’altra che è una finzione utile perché nel tempo l’uomo vive, ‘cade’, ‘risorge’ e si assuefà a dolori anche profondissimi.

Eppure, proprio questa concezione ‘moderna’ e relativistica di tempo e spazio si polverizza nelle ipotesi ‘metafisiche’ del pastore:

“tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo;”

ipotesi che si infrangono irrimediabilmente in domande senza risposta:

“Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?”

Una volta di più Leopardi, contro lo stesso Leopardi antimetafisico dello Zibaldone, interrogando e cercando il «perché delle cose», cioè qui il senso di spazio e tempo, ragiona precisamente sulla possibilità di un senso. Come concludere, dunque, su questa strofa ‘emotiva’ del Canto notturno? Quali risposte a queste domande che minacciano ciò che si sa e crede ed è sembrato vero e razionale una volta per tutte? Perché su felicità, morte, tempo, senso generale dell’esistenza, Leopardi ‘non sa’ o dimentica ciò che sa?

Alla geniale risposta di De Sanctis non dovremmo, ovviamente, aggiungere nulla: «la profondità del concetto è questo, che in ultimo il filosofo ne sa quanto il pastore, e quello che appare una ignoranza e una semplicità del pastore, è appunto la verità». De Sanctis non ci dice: il pastore non sa nulla, ma invece: ciò che il pastore non sa è la verità. Da parte sua, come si è visto, la luna immortale conosce il tutto, cioè conosce il significato di tempo spazio morte felicità.

La verità, dunque, non è la somma delle conoscenze acquisite e progressivamente acquisibili dall’uomo, ma è letteralmente ciò che l’uomo non sa (non sa raggiungere, non sa dire): una verità non disponibile ma, in certo modo, non meno vera. (Si tratta di un passo indietro di Leopardi verso la tradizione platonica della verità ontologica? Ma anche della definitiva rimozione della verità logica, intesa innanzitutto come proprietà delle proposizioni?). In effetti, quando De Sanctis scrive: «è appunto la verità», parla di assoluto: un termine che Leopardi, sulla scia dei suoi “philosophes”, non avrebbe in nessun modo approvato. Con la quinta e la sesta strofa il pastore, nella sua solitudine, stabilisce o ipotizza una nuova relazione, tra la luna e il gregge:

“Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.”

Nei suoi pensieri, l’alto e il basso, l’essere della luna e il quasi niente dell’animale non cogitante, si toccano su uno stesso orizzonte: «Dimmi – chiede il pastore al gregge –: perché giacendo / a bell’agio, ozioso, / S’appaga ogni animale; / Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?». E prima, con lo stesso dimmi rivolto alla luna: «dimmi: ove tende / Questo vagar mio breve, / Il tuo corso immortale?». Non si tratta di una corrispondenza o un tono solo affettivi, ma anche scopertamente concettuali. Né si tratta, peraltro, del gesto ‘narrativo’ d’un personaggio che passa da un interlocutore all’altro, come in una conversazione.

Questo personaggio, il pastore, che si rivolge indifferentemente alla luna e al gregge (alla luna: «ed io che sono?»; al gregge: perché «me… il tedio assale?»), presume che, come la luna (silenziosa) così anche il gregge (incosciente) custodisca un senso profondo e un segreto che nessun uomo potrebbe mai raggiungere. Una strana equivalenza. Sappiamo, proprio dal Nietzsche ‘leopardista’ di Sull’utilità e il danno della storia”, che una pecora non ha scienza né coscienza e che tuttalpiù, in quanto incosciente, è felice.

Ma se questa pecora non sa nulla (non sa nemmeno che cosa sia: nulla), la luna al contrario «conosce» tutto, e l’equivalenza, in sé, sembrerebbe poco plausibile: i due silenzi («silenziosa» la luna, «quieto» il gregge) non sono paragonabili. Leopardi invece volutamente introduce accanto alla sua luna (Vergine che «vede il tutto», nella canzone conclusiva del “Canzoniere” di Petrarca) una paradossale pecora, che non vede niente e non sa niente, non ricorda niente. Nel quadro originario e tutto petrarchesco (cristiano) d’un autentico fedele raccolto in meditazione dinnanzi alla «regina» e «donna del ciel», «chiara e stabile in eterno», la variante leopardiana del gregge ci dice che la fede stessa, nella modernità, si espone formalmente al rischio dell’incredulità: la luna potrebbe essere vuota come la testa di una pecora; «Chi ben sempre rispose», cui il pastore si rivolge con un certo abbandono, potrebbe essere il nulla impersonale.

In Petrarca, tutto è chiaro: la Vergine è «dolce e pia», pietosa (dispensa grazia dove il «fallo abbondò»), è stella polare nelle tempeste della vita, divina ma anche «humana» e umanamente ci insegna la via «al miglior guado». In Leopardi, in un certo senso, tutto è meno chiaro: interrogando la luna, il pastore guarda al «tutto» che la luna «conosce», guarda al «perché delle cose» e in qualche modo si avvicina a una forma intuitiva, ‘emotiva’, di conoscenza. Ma, di fronte al gregge, vorrebbe al contrario rinunciare a ogni forma di conoscenza e di coscienza per un po’ di ‘felicità negativa’, cioè di incoscienza e oblio.

Perché questa confusione? Forse, la modernità stessa è ‘sentimentale’ nell’accezione leopardiana, in quanto esprime una specie di nostalgia per la verità ontologica e, d’altra parte, per quel sentimento diretto della natura perduto dopo i primi poeti (dopo Simonide che, di fronte al cielo e al mare, leggiamo nella “Canzone all’Italia”,«toglieasi in man la lira»). Con Leopardi, la natura stessa è innanzitutto deserto (nel “Canto notturno”, nella “Ginestra”) e Dio è innanzitutto ‘assenza di Dio’ o vuoto o silenzio. Inoltre, e in particolare, il silenzio del gregge appare qui la caricatura del silenzio della luna, e la dolcezza mite della condizione animale lo specchio deformante della purezza sublime della Vergine.

Ma tuttavia, avvicinando incoscienza (del gregge) e coscienza (della luna), e indebolendo così, in certo modo, il ‘divino’ stesso, Leopardi nel personaggio del pastore mantiene ostinatamente alto, fermo e instancabile il timbro delle domande: «che fai?», «perché?», «che fa?», «che vuol dir?», «ed io?»… E queste domande, a una a una, non sono meno incalzanti delle suppliche che Petrarca rivolge fiducioso alla sua Vergine «unica e sola», ma anche «humana» e soccorrevole: «soccorri alla mia guerra», «prego ch’appaghi il cor» (cioè prego che tu calmi il mio cuore), «non mi lasciare in su l’extremo passo», etc. Certo, la «vergine luna» di Leopardi non si china sul pastore come una madre sul figlio, né il pastore, in effetti, le chiede aiuto.

È una Vergine-Madre astratta, candida, fredda, non umana né dolce. Ma a differenza del gregge, che è «dolce» e «fortunato» e incosciente e non sa e non è quasi nulla, questa Madre astratta è infine, ontologicamente, la verità. Questa luna che non dice niente e che, come il gregge, potrebbe non aver niente da dire o, altrimenti, come dio, potrebbe aver tutto da dire, è la verità. La straordinaria e obliqua invenzione di Leopardi, sul finire del “Canto notturno”, è che l’amore per questo dio, da parte del pastore, passa attraverso la mediazione dell’amore per il gregge (dolce, mio), come se lo spirito si potesse amare a partire dal buio della materia, dal fondo stesso dell’incoscienza, dunque in definitiva integrando l’abito filosofico e la stessa curiosità metafisica con il sogno e l’abbandono immemore (queto, contento) del gregge.

L’onda affettiva, che sospinge e sostiene fin da principio l’impulso teorico e la pura interrogazione (dimmi, che fai?, dimmi…), si allarga apertamente nel Canto quando in scena, beatamente in riposo sull’erba, entra il gregge. Questo basso, inspiegabilmente, ha a che fare con l’alto, questa incoscienza della pecora ha a che fare con la stessa coscienza (di sé, del perché) della luna. L’abisso buio della materia è la sorgente, precisamente, da cui sgorga e si espande l’aria emotiva che raggiunge il cielo della luna e là – lassù – dove non ci sono parole si chiude in discorso poetico: il sommo del discorso umano.

Un bel viaggio, dopotutto. Ma un dio o ente ‘non mortale’, assolutamente silenzioso, come potrebbe parlare altrimenti?

Prof. Gardenio Granata
8-12 Marzo 2021

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