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Gardenio Granata, “Vita bestial mi piacque e non umana”: la figura di Vanni Fucci [Lectura Dantis, Inferno XXIV]

«Oh potenza di Dio, quant’è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!»
[vv. 119-120]

Quando finalmente, oltre la metà del canto, giungiamo alla descrizione della settima bolgia (cerchio VIII) ancora non conosciamo il peccato qui punito. Né Dante ce lo dice; però offre subito il dato visivo dell’enorme quantità di serpenti che inseguono e legano i dannati.

Ma se il serpente può essere segno generale della frode (si ricordi il serpente dell’Eden e, in Dante, la figura di Gerione o la scena allegorica in Purg. VIII, 95 sgg.), il fatto che qui i serpenti leghino le mani ci riporta immediatamente, per contrappasso, a chi è stato veloce…di mano. La colpa di cui si tratta nella settima bolgia, e che farà da filo conduttore in questo come nel prossimo canto, è quella del ladrocinio fraudolento.

Siamo ancora di fronte ad una forma di violenza contro le cose altrui (cfr. Inf. XI, 32) ma la nota caratterizzante la colpa è, in questo caso, l’inganno e non la forza. Come ciò costituisca un’aggravante è già stato spiegato da Dante nel canto XI dove, dopo il drammatico incontro con Farinata, i due pellegrini si riposano prima di scendere nella “più crudele stipa” (Inf. XI, 3); tuttavia ricorderemo come nell’esercizio dell’inganno si configuri non solo una violazione nei confronti dei diritti fondamentali di un’altra persona – è il caso del peccato di violenza – ma anche un’estinzione di quel naturale vincolo di fiducia che dovrebbe legare gli uomini l’uno all’altro, e maggiormente se esistono legami di sangue.

Ora il fatto che i serpenti leghino loro le mani è presto spiegato, qualora si pensi che in vita queste si mossero spesso e con gran lena per depredare e mai per produrre effetti di qualche pubblico vantaggio; ebbene, questa è solo una parte della pena dei ladri: essi, per aver privato gli altri dei loro averi, sono privati con la metamorfosi della figura e della personalità, vale a dire di quanto l’uomo ha di più suo. Non importa stabilire se le metamorfosi di cui avremo esempi in questi canti siano diverse per i differenti tipi di furto fraudolento (non di quello violento, punito nel cerchio settimo, girone primo): il fatto è che il furto infrange il diritto di usufruire della proprietà intaccando quindi la persona in un suo diritto fondamentale, in quello che la rende «persona» (aristotelicamente: sottrae la «materia» legata in un vincolo individuo alla «forma»), e distruggendo un rapporto civile.

Per contrappasso, a queste anime è tolta la ragione profonda del loro essere, la «forma» umana. La natura fraudolenta del furto sarà riconfermata da Vanni Fucci punito per questa colpa “nascosta” rispetto a quella nota di assassino, e dai cinque ladri fiorentini: l’uno e gli altri inducono il Poeta ad un’apostrofe contro Pistoia e Firenze, il che è segno evidente del carattere sociale-politico della colpa. Il serpente è dunque l’emblema del ladro; e se Dante entra qui in gara con i poeti classici (vv. 85-90), egli li contamina però con fonti contemporanee dotte e popolari che, derivando contemporaneamente dalla Scrittura e dall’esperienza, descrivevano il carattere malvagio e subdolo del serpente.

Ma il richiamo esplicito è ai classici, Ovidio e Lucano, soprattutto – citati poi per nome nel canto successivo –, ma anche Virgilio e Stazio: dunque a due poeti ricordati nel Limbo, alla sua guida, e ad un poeta che tanta parte avrà nel Purgatorio. Da Lucano (“Phars.” X, 708-721), Dante deriva la descrizione della moltitudine di serpenti (vv. 82-90) e nel confronto risulta facilmente vittorioso: il poeta latino descrive vari tipi di rettili, in un minuzioso catalogo esibente solo la sua erudizione zoologica; Dante sostituisce alla dispersività catalogatoria di Lucano un’efficace sintesi in cui quasi rimbalzano i suoni strani dei nomi dei rettili. Il Nostro ci presenta una un’atmosfera di sbigottito orrore quale invece nelle minuzie scientifiche del testo latino si perde. La competizione coi classici avviene quindi sul loro terreno, nella ricerca cioè di una forma espressiva che dei classici possedeva le qualità di ordine, sobrietà e nettezza anche se il contenuto etico, presente e anzi condotto alla esasperazione, non è certo quello dei classici.

Se questa gara ha luogo nella similitudine del villanello e nella rappresentazione della bolgia e, più avanti, in quella della fenice e nell’apparizione di Caco, essa rivela i suoi momenti più chiari ed espliciti nelle tre metamorfosi descritte nei canti: nella prima la forma umana rinasce come la fenice dalle sue ceneri; nella seconda l’uomo e il serpente si fondono in un mostruoso essere ibrido; nella terza le nature dell’uomo e del serpente si scambiano. Nella prima metamorfosi, dove nell’incenerimento del ladro sacrilego c’è forse il ricordo di Giove che fulmina i superbi giganti, i modelli sono Lucano e Ovidio.

Nei modelli tuttavia non compariva l’incenerimento ma il dissolvimento del corpo a causa di un serpente e poi – in altra parte – la ricostituzione di esso. Dante riserva l’analisi alle altre metamorfosi e qui invece sintetizza tutto in cinque versi: due per la distruzione (vv.101-102), uno per i risultati di essa (v.103) e altri due per la ricostituzione del corpo (vv.104-105). La velocità della fiammata fa tutt’uno con quella dei versi. A maggior contrasto, la successiva similitudine della Fenice, apparentemente oltre necessità, per ben due terzine gioca invece un ruolo di non poco momento, perché qui alloggia il paradosso dantesco, l’incenerimento e la risurrezione del dannato in Dante rappresentano l’opposto del mito della Fenice: quasi un miracolo capovolto, un “antimiracolo”. Il mito della Fenice eternamente risuscitante dalle sue ceneri in pressoché tutte le sue apparizioni nella fiaba, nella leggenda, nella poesia e nell’arte, sta a indicare la fede in un esempio di eternità, in un documento d’immortalità, nel nostro mondo mortale. Tutto muore, «finit… aevum» (come leggiamo nel passo ovidiano ad essa dedicato), ma la Fenice non muore, il Cristo non muore, il mondo non muore, l’anima individuale non muore, e così via.

La variante infernale del mito feniceo è deputata a rappresentare il fenomeno opposto in quanto, per il dannato che invoca una seconda morte eternamente a lui negata, l’annichilimento è una speranza, non una minaccia; una illusione di assenza immediatamente distrutta dall’inevitabile risurrezione. Risurrezione che è qui condanna, promessa e conferma di un’eternità di dolore e di tormento. Si dovrà così interpretare il tono lirico e vagamente favoloso dei versi sulla Fenice («Erba né biada…») e i riferimenti ai dolci aromi che nutrono la Fenice in vita e la proteggono in morte come elementi di un’ironia tragica funzionali a mettere a contrasto l’opposizione fra la risurrezione «in vita» e quella «in morte».

L’incenerimento qui non è morte, ma un’illusione di non-essere descritta infatti in termini di uno svenimento, di un attacco epilettico: o d’altra «oppilazion che lega l’omo» (vv.112-114 [citazioni scritturali, questa volta, da Marco, 1, 26; Luca, 4, 35] ). L’incenerimento non è neppure il regno del nulla, dell’assenza, il mondo negativo dei mistici, perché il dolore continua nel non-essere, nella cenere stessa di quel che fu il dannato. Questa è l’ironia dell’episodio, o, se si vuole, l’invenzione della crudeltà divina («per vendetta croscia»): anche là dove manca l’individualità, come in un mucchietto di cenere, il dolore non conosce tregua: il dannato che ha compiuto il viaggio nella cenere e fuori dalla cenere è tutto smarrito nella «grande angoscia / ch’elli ha sofferta». Nel regno della morte, essere e non-essere sono sempre angoscia.

Il dannato, che si rivela per Vanni Fucci, è una potente figura di peccatore che ostenta la sua “bestialità”, tanto da ripetere il termine “bestia” quattro volte in tre versi: era riserbato a Vanni il dire: «io piovvi…», il personalizzare questo verbo, lo scegliere un’immagine impersonale, nella quale egli annega la sua propria persona. «Vita bestial mi piacque» e non se ne accontenta, e vi aggiunge la vita umana a contrapposto ed esclusione. “Siccome a mul ch’io fui”: alla degradazione dell’anima aggiunge la degradazione della sua origine: egli si proclama bastardo e l’espressione è degna della sua intenzione: l’immagine che egli sceglie è quella del mulo […]. Un uomo direbbe: “Pistoia fu mia patria”.

Vanni Fucci bestia soggiunge: «Pistoia mi fu degna tana». Il dannato non può che vergognarsi perché Dante lo ha scoperto fra i ladri – ed è ladro sacrilego per di più – ma subito dà prova della sua bestialità prima vendicandosi sul Nostro, poi ingiuriando Dio con un gesto osceno all’inizio del canto successivo: «Al fine de le sue parole il ladro / le mani alzò con amendue le fiche, / gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». È più empio di Capaneo: questi non si riconosce sconfitto da Dio, Vanni Fucci si vanta della sua qualità di peccatore e dei suoi atteggiamenti da «facchino», per dirla con il De Sanctis. Ѐ lui ad usare esplicitamente la parola «ladro»; è lui a provocare l’ira dei serpenti che sono altri ladri “trasformati”…

Tutto il suo comportamento è di rabbia, una rabbia impotente: questa è la sua vera pena, come era per Capaneo. Ma se quest’ultimo aveva in sé qualcosa di eroico nella sua insubordinazione al divino, in Vanni non c’è grandezza alcuna: Capaneo rimane immobile sotto la pioggia di fuoco, Vanni fugge ignobilmente. Non è quindi un romantico eroe negativo, nella sua bestialità non usa la ragione che per l’uomo «è sua speziale vita e atto della sua più nobile parte» (Convivio, II, VII, 3-4): e chi usa solo «la parte sensitiva» – è ancora Dante nel Convivio – «vive bestia».

Insomma Vanni Fucci è l’ultima degradazione dell’uomo, un demonio poiché impastato della medesima sostanza dei diavoli e nei suoi confronti Dante non nutre alcuna simpatia: basti notare (vv. 127-128) che egli non parla al dannato, ma si avvale di Virgilio quale intermediario. Troviamo che elemento fondamentale della pena dei ladri è anche la degradazione che la figura di Vanni e la metamorfosi in corpi bruti mostrano con chiarezza: l’umano è ridotto a pura massa corporea e il dissolvimento della vita spirituale provoca il trionfo della pura materia. Già il primo annuncio della bolgia dei ladri era costituito da parole incomprensibili (vv. 65-66: «onde una voce uscì de l’alto fosso, / a parole formar disconvenevole.»): ora proprio quella bestialità ci offre una spiegazione esaustiva di quella prolessi.

Con la profezia del Pistoiese si chiude il canto. Essa è una vendetta contro Dante che ha scoperto il peccatore nella bolgia: è quindi una ripresa della bestialità del dannato. Ed è anche un ulteriore esempio di ricerca letteraria: traduce infatti gli eventi della storia in fenomeni della natura alla cui descrizione collaborano simbologie mitologiche (Marte) ed elementi scientifici (vapore igneo e vapore acqueo), mentre l’impiego del tempo presente dei verbi rende attuale ciò che è futuro. E se il linguaggio è immaginoso e metaforico, i versi non rispettano il ritmo della terzina, ma si riuniscono in distici (vv. 143-144; 145-146; 147-148; 149-150) suggellati dal crudele verso 151: «E detto l’ho perché doler ti debbia!» Ne risulta una profezia scandita ed aspra che si ricollega alla tradizione delle profezie appunto in distici e, contemporaneamente, alla popolaresca epica cronachistica e al suo andamento ritmato o, forse, ai “vituperia” martellanti dei poeti borghesi con marcate venature comico-realistiche, come Cecco Angiolieri che Dante conobbe e bene.

La pretesa d’imporre la propria protervia ritorna dunque nella profezia malevola degli eventi politici di Pistoia e di Firenze che coinvolgeranno a fondo Dante, con la sconfitta dei Bianchi pistoiesi che porterà con sé la definitiva rovina di quelli fiorentini. Quanto Vanni Fucci ha raccontato del prossimo futuro è in funzione del piacere come esito del dolore che prevede ne deriverà a Dante come nemico politico. Il nostro poeta-viaggiatore non potrà, quindi, godere d’aver incontrato l’avversario di parte punito brutalmente nell’inferno per un furto sacrilego falsamente addebitato ad altri sulla terra.

Parrebbe che il piacere conclusivo del dialogo resti interamente a Vanni Fucci per aver usato “bene” lo strumento della conoscenza del futuro in possesso dei dannati, infliggendo a Dante il dolore di una rovina politica e personale che s’illude lo compensi del luogo terribile in cui si trova, o così almeno lo spregevole individuo vuol credere. Ma l’inferno non fa sconti, mai e in eterno…

Prof. Gardenio Granata
2-3 Febbraio 2021

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