Gardenio Granata, «L’ultimo orizzonte»: una lettura psicanalitica dell'”Infinito” leopardiano
L’idillio tradizionale è racconto naturalistico; chiede l’immagine, il quadro, il sito. Quello Leopardiano non rappresenta un sito, ma una situazione. Quest’ultima è la relazione del soggetto con il sito, il modo del suo essere nell’ambiente naturale, la coscienza prospettica della collocazione dell’io nel mondo. La situazione è l’allegoria della relazione tra uomo ed universo, la figura della necessità che accomuna io e natura.
L’Infinito (1819) si colloca alla radice cronologica e spirituale di questa “poetica della situazione”: il colle, la siepe e gli altri elementi naturalistici “sono”, hanno cioè realtà poetica in forza del rapporto con il protagonista che ad essi è associato da un legame di consuetudine (sempre), di affetto (caro),di vicinanza (questo colle, questa siepe, queste piante), di solitaria elezione (ermo), di intimità protetta ed esclusiva; ed essi, a loro volta, avvincono il protagonista, inglobandolo in una fluida successione di spazi concentrici (siepe, colle, ultimo orizzonte, mare), secondo un coerente e quasi geometrico sistema di interne relazioni, al cui formale svolgimento concorrono gli “enjambements”, l’insistita catena delle congiunzioni, la trama dialogante dei dimostrativi (questo, quello).
Il colle, la siepe, le piante sono, in virtù di questa struttura figurativa e sintattica, determinati esclusivamente in ordine al protagonista, da lui solo riconosciuti e riconoscibili. L’altro è escluso: l’idillio si svolge in una dimensione autistica, di solitaria contemplazione, di autorispecchiamento. L’insistenza sui pronomi di prima persona, “io, mi, mio,” preannuncia una disposizione narcisistica. Anche la scelta spaziale concreta la scelta narcisistica: l’ermo colle esclude il lettore, l’altro da sé. L’avventura storica dello spirito comincia da un atto di rimozione visiva (“che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”).
Se la penetrazione visiva configura l’aggressione sessuale e provoca le sanzioni edipiche (castrazione-cecità-morte), il ripiegamento verso le fantasie visive puerili pregenitali fornisce un modello di appagamento alternativo che non viola i tabù edipici. Lo sguardo, distolto dal possesso del reale, dell’altro, si rivolge verso l’io appagandosi nel rispecchiamento della propria immagine infantile. In particolare l’atteggiamento narcisistico e il bisogno di non violare i tabù edipici modificano il rapporto tra il protagonista e la realtà: questa si configura non quale oggetto da possedere, ma come soggetto con cui immedesimarsi.
Al dominio adulto, razionale, si sostituisce l’identificazione infantile, prelogica nei confronti della natura-madre. Il tabù edipico è scavalcato attraverso la fuga a ritroso nel tempo verso l’unità indistinta figlio-madre. Vengono meno dimensioni e distanze; il rapporto prospettico con le cose è modificato. L’allontanamento progressivo dello sguardo dal suo oggetto, dalla “madre-natura”, concreta il meccanismo psichico della rimozione: il vedere da lontano traduce in termini di comportamento, prima, e in termini di poetica, poi, il momento dell’equilibrio psicologico, o meglio del doloroso compromesso tra desiderio di guardare-possedere e paura della cecità-castrazione. La regressione verso il pre-edipico, mentre attenua le angosce genitali e restituisce ad una felicità infantile, inconsapevole (desessualizzata), sostituisce alla visione reale e razionale del mondo una rappresentazione mitica e fantastica di esso: l’interesse per il fanciullesco mirabile della poesia omerica e virgiliana esplicita il corrispettivo letterario di questa regressione visiva.
L’arte romantica offre il destro all’espressione dello stupro voyeristico dell’uomo incivilito verso la natura primitiva. Lo sguardo è lo strumento e il simbolo dell’assoggettamento delle cose all’uomo. Attraverso la penetrazione visiva si compie l’atto dissacrante e imperioso che gerarchizza il rapporto uomo-natura, scioglie l’unità dell’essere e produce il dualismo soggetto-oggetto: inizia la dolorosa avventura individuale e tramonta il mondo delle illusioni naturali e dell’armonia primitiva di cui godono i fanciulli e i selvaggi. Muore la poesia e nasce la filosofia o, in termini leopardiani, muore l’antica “poesia dell’immaginazione” e nasce la moderna “poesia sentimentale”.
“ … il guardo esclude”… Nell’Infinito l’esclusione dello sguardo non è vissuta come trauma della cecità-castrazione, ma come costume di vita, assuefazione, adattamento. Il trauma è a monte dell’Infinito e i primi versi ne suggeriscono la rievocazione solenne. La violenza si è fatta rito sacrificale: il colle e la siepe ne sono rispettivamente l’altare e il simbolo; il protagonista è insieme vittima e sacerdote. L’esclusione dello sguardo non è subita come perdita, ma accettata e voluta in funzione della ricerca di un diverso modo di essere rispetto alla natura.
Il rapporto io-mondo è sciolto, liberato dalle strutture visive, con ciò che esse implicano: la superiorità del soggetto sull’oggetto, la reificazione della natura, la conoscenza come distinzione e dominio, il realismo descrittivo come forma autoritaria e possessiva del linguaggio. La negazione della poesia idillica tradizionale non poteva essere più radicale e audacemente sperimentalistica. Respinta ogni concessione al sito, cioè al naturalismo e pittoricismo settecentesco, Leopardi crea nel suo primo idillio uno spazio “che non si vede”, privo di oggetti e di colori, pura situazione.
Gli attributi caro ed ermo alleggeriscono, per così dire, il colle della sua fisicità spaziale, collocandolo in una dimensione al tempo stesso intima e remota, affettiva ed arcana; L’orizzonte è lontano, imperscrutabile, ultimo; le piante e il vento non hanno altra consistenza al di fuori della sensazione acustica che producono (“odo stormir”); il mare è mera metafora. Soltanto la siepe possiede una plastica consistenza, misurata dal protagonista in tutta la sua estensione spaziale (“da tanta parte”), ma rappresenta appunto il limite, la fatale resistenza alla penetrazione visiva della natura, lo strumento concreto della rimozione dello sguardo. Anche l’assenza di colore contribuisce a togliere al sito fisicità e verosimiglianza: il pittorico celeste confine dell’autografo napoletano cede al geometrico ultimo orizzonte.
Come ombre vane sono gli “interminati spazi” e i “sovrumani silenzi” che attorniano il protagonista, fantasmi senza luce e saldezza; nello sguardo assente le parvenze delle cose si consumano e il reale si dissolve fino al suo magico “negativo”: il colle caro si fa profondissima voragine “ove per poco il cor non si spaura”, e la terra su cui siede il protagonista diventa l’acqua del suo naufragio. Concorre alla formazione di questa situazione irreale, magica, la privazione delle coordinate spaziali; la dissoluzione della distinzione tra soggetto e oggetto si accompagna alla mancata separazione fra spazio esterno e spazio interno: gli “interminati spazi” si aprono nel pensiero ed esso annega in loro; si giustappongono la voce del vento (esterna) e “l’infinito silenzio” (interno). L’avverbio “ove”, le preposizioni “tra” e “in” perdono il valore locativo proprio; la fluttuazione prospettica rende incerto l’uso degli aggettivi dimostrativi (questa siepe, di là da quella; quello infinito silenzio, questa immensità).
La distorsione sintattica e, più a monte, l’allontanamento dal principio di realtà, investe la coordinazione temporale del discorso: al “fu” del primo verso subentra il presente acronico; si smarrisce nella comparazione la distinzione tra “le morte stagioni e la presente e viva”; il come del verso ottavo (“E come il vento odo stormir”) perde la sua determinazione causale-temporale (quando, non appena) a favore di un “ogni volta che”, deputato a condurci verso una temporalità ripetitiva, ciclica, preistorica. Più in generale sono le strutture spazio-temporali del pensiero che vengono meno insieme a quelle visive. Entra in crisi una logica, ma un certo tipo di logica, verticale, autoritaria, paterna (penica), il cui corrispettivo storico poggia su quella “raison”, vista quale proliferante cancro, figlio di un razionalismo insensibile e mediocre, scettico e preclusivo di entusiasmo, di vitalità piena, di piacere sensisticamente inteso, che degrada l’autentico razionalismo geometrico di matrice cartesiana nelle secche dell’aridità calcolatrice ed egoista.
Il sentimento dell’infinito è il riflesso psicologico e poetico di questa eclissi della “ragione”. L’infinito leopardiano è figlio della natura, non del pensiero o, se preferiamo, di un pensiero che è esso stesso natura, “senso interno”, intima trasparenza dell’esperienza vitale. La ragione leopardiana non cerca la conoscenza dell’essere, ma l’identificazione con l’essere: ragione-madre, che restituisce l’uomo alla naturale armonia delle sue facoltà conoscitive e rigenera il sentimento dell’unità vivente del cosmo, che è proprio dei primitivi e dei fanciulli. Il narcisismo del protagonista dell’Infinito non conduce all’esclusione dell’altro, del diverso, ma al ritrovamento dell’altro in sé e di sé nell’altro, all’esperienza dell’essere come totalità continua, senza fratture, in-finita.
L’esclusione dello sguardo o, più precisamente, la presenza di un limite che impedisce il possesso visivo del reale, stimola infatti esperienze conoscitive alternative, che rendono più intensa e ricettiva la sensibilità psico-somatica, favorendo i meccanismi sinestetici e associativi, suscitando nuovi modi di contatto con gli oggetti che dilatano la sfera della percezione fino ad accogliere le esperienze dei processi di immaginazione magica e onirica. La regressione verso gli stadi più arcaici, preedipici, prelogici dell’esistenza è la condizione perché l’io possa varcare la siepe e stabilire con il Mondo un rapporto che sia l’indefinita proiezione della simbiosi figlio-madre. “sedendo e mirando” → posizione di “passività”. Per G. Manacorda (Materialismo e masochismo. Il “Werther”, Foscolo e Leopardi, Firenze, 1973) il colle è allegoria del seno; per N. Jonard (L’imagination dans les “Canti” de Leopardi, in “Revue des Etudes Italiennes”, vol. XXII, 1976, pp. 289-339) il mare, l’acqua del finale naufragio è “element féminin par excellence”. Sono ancora simboli femminili la siepe, l’orizzonte, le piante.
Il fantasma psichico di un essere avvolgente che accoglie e protegge si identifica in queste nitide figure, che l’insegnamento della poesia arcadica rende obbedienti ad un sobrio disegno compositivo, felicemente riposanti sull’accordo degli elementi narrativi, linguistici e metrici. La carica allusiva dell’idillio si distende, in grazia dell’educazione letteraria settecentesca, in una trama coerente, omogenea, mediata dal trasparente tessuto delle immagini, scevra di insistite divagazioni episodiche e di repentine intensificazioni emozionali. Se l’aggettivo ermo avvia a una dimensione di raccolta e solitaria claustralità, è la presenza della siepe che fissa l’azione in uno spazio chiuso, protettivo e costrittivo insieme, circoscritto a sua volta, per armonica corrispondenza di linee concentriche, nel più vasto confine dell’ultimo orizzonte. L’iterazione del dimostrativo, mentre dichiara il rapporto di consuetudine tra il protagonista e l’ambiente, intensifica la sensazione di fisica intimità, di pressante contatto, di comunione corporea, cui obbediscono anche i movimenti psichici, i quali, in forza dei complementi locativi e riflessivi, si muovono all’interno di uno spazio intimo, difeso, quasi una raccolta e trepida nicchia emozionale.
A nostro giudizio l’idillio si svolge non per blocchi antitetici, ma per ininterrotta successione di onde concentriche, dal centro alla periferia e da questa al centro, suggerendo una visione di fluida continuità dell’essere: non contrapposizione , semmai giustapposizione di io e natura, spazio dei sensi e spazio dell’immaginazione, finito-infinito, tempo-eterno. In questa trama i dimostrativi non marcano fratture dialettiche, ma segnano il tracciato lungo il quale si muovono le forze centrifughe e centripete che animano la composizione, la cui continuità discorsiva è resa salda, a livello linguistico, dalle congiunzioni copulative e, a livello ritmico-metrico, dalle paronomasie, e dalla serie continuata degli endecasillabi, con la loro melodia senza strappi, quasi senza accenti.
Al centro di questa circolare animazione cosmica il protagonista, raccolto in se stesso, avverte, con trepido smarrimento, lo smisurato respiro dell’esistenza, che preme da ogni lato, e assorbe il suo essere individuale in un altro essere, indeterminato, profondissimo, sovrumano. Il sentimento della globalità dell’esistenza si sovrappone alla distinzione tra soggetto e oggetto. Il narcisismo, che nella prima fase della nostra analisi abbiamo visto consistere nel ritiro dello sguardo dalle cose esterne all’io e nel rifiuto di un rapporto oggettuale con la natura, si propone ora come superamento dei confini tra io e mondo e intuizione dell’onnicomprensività dell’io.
L’universo intellettuale (io) e l’universo fisico (natura) si organizzano in un duplice sistema di strutture circolari che convergono verso il medesimo centro e insieme si dilatano all’infinito in armonico contrappunto di linee melodiche e figurali. Alla successione spaziale avvolgente siepe-colle-orizzonte corrisponde la successione dello spazio immaginario nell’ampiezza (“interminati spazi”), nell’altezza (“sovrumani silenzi”), nella profondità (“profondissima quiete”). In questo complesso sistema di convergenze le ambivalenze semantiche dei pronomi dimostrativi segnano non le opposizioni, ma i mutamenti di prospettiva che, all’interno di un tutto unitario restituiscono l’immagine e il sentimento della dialettica armonia dell’essere, nella quale Io e Mondo appaiono distinti ma strettamente abbracciati in una simbiosi di vitali affinità e necessarie dipendenze. Un tenace residuo di educazione idealistica ci induce a considerare il gerundio “sedendo” del quarto verso come una superflua, se non addirittura fastidiosa notazione di cronaca e a sfumarne, sino a vanificarlo, il significato, interpretandolo, ad esempio, come “risiedendo, sostando”.
Con ciò si trascura tanto l’orientamento sensistico della poetica leopardiana che collega la fantasia poetica al linguaggio corporeo, quanto la moderna critica psicologica che restituisce rilievo espressivo al linguaggio gestuale. Con il verso quarto, infatti, Leopardi definisce il modo, somatico e psicologico insieme, della relazione tra il protagonista e l’ambiente (e la congiunzione avversativa contribuisce ad accentrare l’attenzione su i due gerundi, rovesciando la tendenza al generico descrittivismo dei primi versi e rendendo netto e risoluto il passaggio dal “sito” alla “situazione”).
La constatazione che un atteggiamento di rilassata intimità con l’ambiente favorisce la contemplazione e la meditazione poggia, nell’analisi psicologica, sulla percezione, sperimentata a livello somatico, che il contatto immediato, epidermico con le cose favorisce il recupero della primitiva unità naturale, ripristina la situazione di gratificante armonia con l’essere, contribuisce a rimuovere il sentimento angoscioso e traumatico di separazione dalle sorgenti prime dell’esistenza (la madre-terra). È sintomatico avvertire come lungo l’intero arco del canzoniere leopardiano l’atto del sedersi ritorni con significativa frequenza e sia stabilmente associato con gli atteggiamenti contemplativi del protagonista:
Talor m’assido in solitaria parte (La vita solitaria)
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio / sedendo immoto (ibidem)
o seder sovra l’erbe, assai contento / se core o lena a sospirar m’avanza (ibidem)
ed io seggo e mi lagno / del giovanile error che m’abbandona (Alla sua donna)
che, tacito, seduto in verde zolla, / delle sere io solea passar gran parte / mirando il cielo, ed ascoltando il canto (Le ricordanze)
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra (Canto notturno)
… su l’erba qui neghittoso immobile giacendo (Aspasia)
Sovente in queste rive,… seggo la notte (La ginestra)
Se non si presta la dovuta attenzione a tale ripetersi di occorrenze testuali, ci si preclude la possibilità di intendere il complesso degli atteggiamenti attraverso i quali il protagonista esprime i suoi sentimenti di rifiuto e di rifugio, così come di cogliere l’unità strutturale dell’idillio fondata sulla contrapposizione dialettica tra i sentimenti e i moti d’inquietudine del poeta e l’arcana immobilità della natura, posata, adagiata in se stessa. Sedersi è dunque gesto propiziatorio, persuasione oscura che guida la vita corporea all’attingimento di una totale armonia, che è al tempo stesso il supremo comporsi dello spirito nella beatitudine prenatale e nella morte, due esiti che solo l’inganno della ragione dice contraddittori. “Mirando” è complementare a “sedendo”.
La simmetria sintattica e fonetica consolida il valore univoco dei due gerundi, per intendere il quale occorre sciogliere preliminarmente l’apparente contraddizione tra l’azione del “mirare” e l’esclusione dello sguardo indicata nel terzo verso. “Guardare” esprime la consapevolezza del vedere, il possesso intenzionale della realtà esterna mediante l’organo della vista; “mirare” trasferisce l’accento semantico dall’atto del vedere all’emozione ricevuta dallo spettatore: ammirare, stupirsi, “guardare”, raro nei Canti, non è mai usato negli idilli; mirare è verbo tra i più frequenti ed espressivi della poesia idillica. In questi versi il mirare esprime di volta in volta, stupore, ammirazione, meraviglia, gioia, tenerezza, inquietudine (il “fanciullesco mirabile”): emozioni ricevute, accettate, subite.
In questo senso recettivo il mirare non contraddice l’esclusione dello sguardo, anzi la conferma fornendole la necessaria alternativa: alla disposizione visivo-psicologica attiva, adulta (sadica), simbolicamente rimossa dalla siepe, subentra una disposizione visivo-psicologica passiva, infantile (masochistica). Mirare equivale a vagheggiare: contemplazione pura, idoleggiamento, affetti che si appagano di sé. Così inteso l’atto del “mirare” ha una sua castità di sapore stilnovistico, che contribuisce a fare dell’Infinito il documento di un’ascesa sentimentale. Dall’amore-avere all’amore-essere: escluse, con lo sguardo, la penetrazione e la profanazione, il sedendo e mirando costituisce la traduzione gestuale di un atto di identificazione, l’abbandonarsi del corpo al contatto tattile e visivo della natura-madre.
Il fingere (“io nel pensier mi fingo”) compie il mirare: produzione interna di immagini, attività conoscitiva che resta nell’ambito del soggetto, dispiegamento fantastico dell’io a se stesso. Siamo sempre nella sfera autistica. Il verbo “fingere”, nell’accezione leopardiana, suggerisce un’attività magica, infantile, onirica. L’esclusione dello sguardo, il sedersi, il mirare, il fingere sono atti coerenti nella prospettiva narcisisistica. Senso e immaginazione sono investiti nell’io che avverte il suo rapporto con il mondo non come rapporto con l’altro, ma come rapporto con se stesso: il mondo è la dilatazione “sovrumana” dell’io, il suo sconfinamento nell’ampiezza e profondità degli spazi.
Dissolto il diaframma che lo separa dalla natura, l’io riscopre il sentimento di vitale armonia che deriva al figlio dall’unione con il corpo materno. In questa dimensione preedipica della vita psichica si annulla la consapevolezza della distinzione personale e si rimargina il trauma di separazione dalla madre. Un ritmo musicale continuato e solenne accompagna il pacato svolgersi delle finzioni del pensiero che si propagano verso indefiniti orizzonti, colmando ogni frattura e appianando ogni ostacolo tra la sfera personale e quella naturale. La profondissima quiete è il rispecchiamento cosmico dell’assidersi privato. Anche l’iterazione del pronome di prima persona va letta in funzione di questa enfatizzazione, dilatazione autistica. Perfino la paura è riflesso di questo sentimento narcisistico: paura di sé, non dell’altro, paura del proprio essere che si distende in cerchi sconfinati intorno al centro più sensitivo, al cuore smarrito e sgomento. La negazione del moto e della penetrazione sono le condizioni alle quali l’io soggiace perché il velo della conoscenza si schiuda sul mistero dell’essere.
Non è estranea all’atto del sedersi una sensazione funerea di stanchezza e di abbandono che si riverbera sul colle ermo (inabitato-inanimato), sugli spazi interminati (non percorribili, non animati), sui silenzi non rotti da voce umana sovrumani. La “profondissima quiete” (come non sentirvi l’eco della “fatal quiete” Foscoliana?”) prolunga, anche fonicamente, questo affaticato assidersi in un’inerte e inarrestabile caduta cosmica. È una pace intima, pressoché mortale. Il raccogliersi dell’io nel grembo della natura equivale all’annichilimento personale, al dissolvimento nel tutto indistinto: l’universo materno si rivela un universo sepolcrale. Il moto cordiale dell’incipit “sempre caro mi fu […]” si conclude nello smarrito ritrarsi del cuore: “ove per poco / il cor non si spaura.” “Odo stormir” → regressione da un’organizzazione dell’io di tipo visivo, adulto, ad una di tipo uditivo, più arcaica, infantile, passiva.
La coerenza stessa dell’atteggiamento sensistico di Leopardi ci porta a rifiutare la distinzione tra occasioni sensoriali e riflessione; Quest’ultima è pensiero essa stessa: l’unità psico-somatica di ogni atto vitale è inscindibile. Nell’Infinito l’esperienza interna dei legami tra sensazione corporale e vita psichica è tradotta in un compatto tessuto di associazioni simboliche; abbiamo già interpretato in questo senso sia la rimozione dello sguardo sia l’atto del sedersi e mirare; consideriamo ora la sensazione uditiva.
La voce del vento s’inserisce nel centro dell’idillio, popola cesura dell’ottavo verso: l’intera struttura dell’idillio è in equilibrio intorno a questo evento. La sinalefe “spaura”. E le congiunzioni e e come rendono metricamente e sintatticamente armonico il passaggio dallo stato di silenzio dominante nei primi sette versi alla sensazione acustica prodotta dal vento tra le piante. La congiunzione “come”, in questa particolare accezione temporale, conferisce allo stormire del vento il carattere di un fatto non improvviso o imprevisto, ma periodico e ripetitivo, in rapporto di necessità logica e cronologica con l’azione dell’idillio. La prima e la seconda parte della composizione stanno in rapporto di reciproca complementarietà: la struttura dell’Infinito non poggia, come generalmente si afferma, sulla distinzione tra la rappresentazione dell’infinito “spaziale” e quella dell’infinito “temporale”, ma sull’unità di un processo psicologico che va dalla silenziosa attesa del protagonista alla sonora risposta della natura.
L’esclusione dello sguardo, da un lato, e la sollecitazione acustica, dall’altro, non costituiscono fenomeni analoghi e paralleli, tali da conferire all’insieme una simmetria “bilaterale”. L’odo stormir non affianca “lo sguardo esclude”, ma si sostituisce ad esso: l’emozione acustica occupa lo spazio lasciato libero dalla visione rimossa. Il diffondersi di una sensazione sonora è la risposta conseguente e necessaria a quello stato di silenzio naturale e spirituale che occupa i primi versi e che si esprime in un crescendo di determinazioni (“sovrumani silenzi, profondissima quiete, infinito silenzio”). Se c’è simmetria bilaterale, non è tra visione e ascolto, bensì tra assenza e presenza di sensazione uditiva.
Nel ritmo alterno del silenzio e del vento l’io avverte il respiro dell’esistenza naturale. L’essere silenzioso, indeterminato che circonda il protagonista (e il complemento “tra queste piante” rinnova la sensazione di fisica contiguità avvolgente) diventa essere vivente: la natura acquista una voce e con essa una spirituale e benevola animazione. Nell’“odo stormir” si compendiano metaforicamente la disposizione passiva dell’io (odo) e la disposizione attiva, penetrante e permeante della natura che si espande come onda sonora (“stormir”): il rapporto di dipendenza del figlio dalla madre, caratteristico della fase orale, passiva, incorporativa, è trascritto nelle modalità del processo acustico.
La progressione psicologica è, lungo l’intero idillio, coerente e senza soluzione di continuità: prima l’esclusione dello sguardo come rinuncia ad un rapporto adulto possessivo (incestuoso) con la madre naturale; quindi la disposizione gestuale all’identificazione, il “sedendo e mirando” come atto propiziatorio che prefigura il recupero della simbiosi prenatale, e, con esso, le finzioni e la paura che rappresentano l’anticipazione fantastica ed emozionale dell’incontro con un essere più grande, “sovrumano”, sopraindividuale; infine la voce della natura-madre che appaga materialmente l’attesa e il desiderio e suggella in musicale armonia la corrispondenza sensuale e sentimentale tra l’io e la realtà. In questa progressione si collocano anche due significativi svolgimenti semantici: da silenzi (v. 6) a quiete (v. 6), da stormir (v. 9) a voce (v. 10), che segnano l’intensificazione delle sensazioni corporee in direzione emotiva ed interpersonale.
Altrettanto coerente e continua è la progressione melodica dell’idillio, che attinge, proprio in corrispondenza dell’emozione sonora e sensitiva prodotta dal vento, le sue vibrazioni più intense e vivaci. La parola vento si colloca infatti, in posizione accentata, al centro di una serie continuata di assonanze (sempre, sedendo, silenzio; vento; silenzi, sovvien, presente) e ne costituisce l’“acmè” ritmico che si prolunga nei versi successivi (le prime assonanze non sono in posizione ritmica, le seconde sì). Inoltre il verso nono (“odo stormìr tra queste piànte / io quèllo”) con tre accenti ritmici ravviva l’andamento dell’idillio caratterizzato dai più lenti endecasillabi “a maiore”. Vo comparando “e mi sovvien” si collocano nella scia psicologica di “odo stormir”. Il primo predicato verbale non introduce un atto intellettuale separato dall’atto uditivo. “Comparare” non ha, in questo contesto, il valore di “paragonare, mettere a confronto”; siamo in un ambito più sensoriale che intellettuale, coerentemente al significato etimologico del verbo “cum-parare”, porre insieme, comporre, unificare. Silenzio / stormire, quiete / voce: così “comparate”, giustapposte ritmicamente, tali percezioni formano, “compongono” l’immagine dell’essere che vive, che pulsa.
L’io, incorporando, interiorizzando attraverso l’udito queste sensazioni naturali, accoglie in sé il respiro della natura, diventa natura. Il presente continuato “vo comparando” traduce questo atto interno in un’abitudine prolungata nel tempo, in un modo di essere. “Mi sovvien” aggiunge una dimensione verticale a questa esperienza cosmica: “sub-venit”, venire dal basso, dal passato. La voce del vento (della natura-madre), l’intuizione di una riconosciuta identità nativa con le cose, sospinge l’io lungo i gradi del tempo fino alle estreme radici del proprio essere. Il sentimento di comunione con l’universo indefinito si completa in quello di comunione con il tempo indefinito.
Tra i diversi modelli linguistici atti a configurare l’esperienza di un tempo super-individuale (il modello metafisico: “eterno”; il modello naturalistico: “le stagioni”; il modello storico: “il suon di lei”) è il secondo a prevalere: il passato è rivissuto nel suo avvicendamento biologico, nel concatenarsi della vita e della morte, nella successione generazionale; il sentimento del divenire approda alla riscoperta di una lucreziana madre naturale che nel suo fecondo rinnovarsi assorbe e unifica in sé la vicenda del tempo, soccorrendo in tal modo la caducità dei destini individuali: … “e mi sovvien l’eterno / e le morte stagioni, e la presente / e viva e il suon di lei.”. Tra le apparenti contraddizioni logico-sintattiche di questa composizione (infatti, non di contraddizione si tratta, ma del riflesso linguistico di una ritrovata dimensione prefazionale, magica del pensiero) c’è il costrutto “mi sovviene la stagione presente”.
L’allineamento cronologico di eventi passati e presenti non deve sorprendere più di quanto non sorprenda, negli stessi versi, il passaggio da “quello infinito silenzio” a “questa immensità”: l’io riguarda al presente da una dimensione acronica dell’essere, di fronte alla quale ogni genere di distanza si annulla. Il congiungimento con la madre avviene fuori della storia in un tempo pregno di tutte le possibilità esistenziali: la concatenazione dei complementi oggetto, che la ripetizione della congiunzione e il “climax” retorico rendono salda e serrata (“e mi sovvien l’eterno E le morte stagioni, e la presente E viva e il suon di lei”) convoglia verso una sola orbita sovratemporale i frammenti del tempo storico. Si ripete la grande metafora figurale dell’avvolgimento dei versi iniziali: l’io, travolto e assorbito dall’onda di un’emozione sonora naturale, è accolto nella matrice fisica dello spazio e del tempo e in quest’alvo cosmico intuisce l’indefinita continuità dell’esistenza. L’increspatura musicale del vento dispiega l’interminata melodia dell’universo.
È da questo momento, quasi naturale complemento di un processo ormai soddisfatto di integrazione fisica nella natura (dalle funzioni intellettuali al coinvolgimento acustico), che l’idea della morte si affaccia in forma diretta: nel vocabolo “eterno” innanzitutto, che insieme alla voce “quiete” comporta un’allusione non al concetto metafisico di tempo infinito, bensì all’idea cristiano-sacrale di morte (“requiem aeternam”); e nell’espressione “le morte stagioni”, dove l’attributo che sostituisce “passate” acquista rilievo dalla sua stessa improprietà semantica.
Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
A fronte delle consolanti “immagini antiche” il presente appare, allo sguardo di Leopardi, come disseccato, prosciugato da un’interna aridità: Il mondo, talvolta, è definito formidabile deserto; l’Italia, nella coeva canzone “Ad Angelo Mai”, è una stanca e arida terra; egli stesso si sente stecchito e inaridito come una canna secca; in una lettera del 30 giugno 1820 confida al Giordani di sentirsi il cuore come “uno stecco o uno spino”. In antitesi a queste figure dell’aridità esistenziale, la metafora dell’acqua suggerisce uno stato di sensoriale beatitudine e spirituale fecondità.
N. Jonard nel saggio “L’imagination dans les Canti de Leopardi”, indica nelle figure dell’acqua e del mare “l’archétype de l’onde maternelle”, i simboli “de la descente et du retour aux sources originelles du bonheur”. Le immagini dell’acqua forniscono al poeta appaganti suggestioni metaforiche che richiamano la felicità infantile in contrasto con l’aridità del mondo. Del resto l’associazione acqua-donna-madre è, nel simbolismo letterario, tra le più stabili e testimoniate. La corrispondenza tra l’esperienza idillica del naufragio e il recupero fantasmatico della condizione dell’io nell’ “amnios” materno è nettamente dichiarata da Jonard: «Entre la nature et lui, il n’y a plus aucun obstacle. Il est en quelque sorte en sympathie avec l’univers… l’eau, element feminin par excellence de cette nature qui est elle-même une mère immensement elargie, eternelle et projetée dans l’infini… la douceur de ce naufragar est bien celle du sein maternel» : si tratta di un ritorno allo stato primordiale.
L’esperienza del naufragio nell’Infinito è il punto terminale di una linea di tensione psicologica il cui tracciato si snoda lungo l’intero idillio ed è definito dai luoghi semantici che abbiamo esplorato. Il naufragio dell’io coincide con il momento di maggior dilatazione dell’onda cosmica. L’io rientra nel Mondo, e il Mondo si avvolge, quasi una cosmografia precopernicana, intorno all’io. Nel giro breve e concluso dell’idillio si adempie un solenne epos umano. L’eroe del nuovo “ritorno” non è Ulisse, ma Narciso e l’acqua del suo naufragio lo accoglie nell’alvo materno (il predicativo dolce associa a questo evento la reminiscenza di una infantile beatitudine orale). In essa l’io trova riflessa la sua immagine cosmica, la memoria esaltante di una vissuta comunione universale. Il raccogliersi dell’io nel grembo della natura equivale all’annichilimento personale, al dissolvimento nel tutto indistinto: l’universo materno si rivela un universo sepolcrale.
La metafora dell’annegamento, suggella la prospettiva masochistica, risolvendo in un’immagine esplicita e vigorosamente iterata “s’annega il pensier mio: / e il naufragar… “quella tensione verso il basso, verso l’immersione profonda dell’io nelle cose che i vocaboli sedendo, profondissima, sovvien avevano implicitamente prefigurato. Perfino il movimento narrativo dell’idillio e la sua musica solenne sono come assorbiti e definitivamente dissolti nel vocabolo MARE, non casualmente situato in posizione di clausola dell’ultimo endecasillabo sciolto.
Siamo dunque di fronte ad una sceneggiatura allegoricamente inconscia del suicidio. Del resto il continuare a pensare una realtà insopportabilmente avara di emozioni vere necessitava di una pausa dello scacco logico-concettuale e l’intera metafora equorea si candida a concludere un percorso che, da caro a dolce, assume i palesi connotati di un piacere provocato dal lasciarsi cullare in un estatico obnubilamento tra l’infinità dello spazio e quella del tempo. Nell’infinito l’aspetto gratificante (vitale) e quello doloroso (funebre) del ricongiungimento con la madre sono rappresentati da “sedendo” e “s’annega il pensier mio”, esperienze contraddittorie che la metafora “dolce naufragare” raccoglie nell’unità di una emozione “orale” ambivalente.
Ma l’intero idillio è nel segno dell’ambivalenza: la stessa struttura “concentrica” suggerisce la figura della culla e della tomba. Nell’alvo dell’universo materno l’io contempla narcisisticamente la realizzazione della propria identità cosmica e l’annullamento della propria identità personale. La forma infinitiva (“naufragar”) conferisce a questa condizione il carattere di stato permanente, più che di evento cronologicamente individuato. Coincidono la vita e la morte: l’eroe naufrago, Ulisse-Narciso, vive nel dolce mare materno. Anche e soprattutto per questa assenza di confine tra la vita e la morte, l’universo dell’idillio è un universo in-finito… Se ne ricorderà Ungaretti nella raccolta “Allegria di naufragi”!
Appendice: LEOPARDI E LA LUNA
LA RICORDANZA → riflesso speculare e rovesciato della speranza 😊 impotenza a vivere nella realtà e nel presente)
L’INFINITO → non-tempo (abolizione del presente-futuro)
LA LUNA (27 occorrenze nei Canti) → propizia la rimembranza; adempie ad una funzione corrosiva del reale e delle categorie spazio-temporali; elimina i rumori e le contingenze del mondo; predispone alla conversione del “vedere” nel “mirare”.
Con la sua mite e tenue luce rappresenta l’alternativa all’insopportabile rapporto con le cose, quelle che si stagliano nella loro fenomenicità reale alla luce del giorno: nella notte e nel buio alimenta il sogno dell’altrove, facendo intravedere al cuore ciò che gli occhi non potrebbero vedere mai. È dunque naturale che l’infinito e la ricordanza trovino il loro ambito privilegiato nella notte illuminata dalla luna, là dove vengono meno le angustie dello spazio-tempo reale e l’intollerabile fatica dei rapporti consueti.
La luna è, nell’immaginario mitico, madre oppure vergine e sotto questo aspetto assume la funzione di specchio del soggetto poetico; muta interlocutrice nei colloqui notturni di chi a lei si rivolge con domande alle quali non c’è risposta, abitatrice, come il suo contemplatore, della solitudine e della “distanza”, dove la voce non risuona come ricerca di un contatto, ma quale desolata interrogazione davanti al nulla della vita.
Prof. Gardenio Granata
25 Febbraio – 1 Marzo 2021
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