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Frontespizio dell'Amleto di William Shakespeare

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To be or not to be…

Ci piace l’idea di riproporre alla memoria di tutti l’incipit della Scena I, Atto III dell’Amleto, una delle opere più rappresentative di quel genio della letteratura rinascimentale britannica che fu William Shakespeare, composta tra il 1600 ed il 1602.

Incentrato sul tema della vendetta, l’Amleto narra le gesta del principe di Danimarca e trae spunto dalla Leggenda di Amleth, il cui racconto – scritto da Saxo Grammaticus – è incluso nel corpus delle Gesta Danorum.

Riportiamo dunque qui sotto i primi versi dell’Atto III, che così spesso sentiamo e leggiamo nelle frequentissime citazioni, ma che poche volte ci soffermiamo ad assaporare nella loro perfezione tecnica e poetica.

«To be, or not to be, that is the question:
Whether ’tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take arms against a sea of troubles,
And, by opposing, end them. To die, to sleep…
No more, and by a sleep to say we end
The heartache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to: ’tis a consummation
Devoutly to be wished. To die, to sleep.
«Essere, o non essere, ecco la questione:
se sia più nobile nella mente soffrire
i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna
o prendere le armi contro un mare di affanni
e, contrastandoli, porre loro fine. Morire, dormire…
nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali
di cui è erede la carne: è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.

Frontespizio dell'Amleto di William Shakespeare

To sleep, perchance to dream. Ay, there’s the rub,
For in that sleep of death what dreams may come
When we have shuffled off this mortal coil
Must give us pause. There’s the respect
That makes calamity of so long life,
For who would bear the whips and scorns of time,
Th’oppressor’s wrong, the proud man’s contumely,
The pangs of despis’d love, the law’s delay,
The insolence of office, and the spurns
That patient merit of th’unworthy takes,
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin? Who would fardels bear,
To grunt and sweat under a weary life,
But that the dread of something after death,
The undiscovered country from whose bourn
No traveller returns, puzzles the will,
And makes us rather bear those ills we have
Than fly to others that we know not of?
Thus conscience does make cowards of us all,
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o’er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pitch and moment
With this regard their currents turn awry,
And lose the name of action.»
Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo,
perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire
dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale
deve farci esitare. È questo lo scrupolo
che dà alla sventura una vita così lunga.
Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo,
il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo,
gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge,
l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo
che il merito paziente riceve dagli indegni,
quando egli stesso potrebbe darsi quietanza
con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli,
grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa,
se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte,
il paese inesplorato dalla cui frontiera
nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà
e ci fa sopportare i mali che abbiamo
piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti?
Così la coscienza ci rende tutti codardi,
e così il colore naturale della risolutezza
è reso malsano dalla pallida cera del pensiero,
e imprese di grande altezza e momento
per questa ragione deviano dal loro corso
e perdono il nome di azione.»

Il teschio Amletico

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