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La sconfitta della Resistenza

Sono passati oramai sessantasette anni dalla Liberazione o, meglio ancora, da quel fatidico 25 aprile 1945. Ma, storicamente parlando, il fascismo è ancora qui: presente, vivo, zelante. Poco è cambiato da quando il Duce è stato appeso per i piedi a Piazzale Loreto. Anzi: con quest’atto ignobile il CLN fallì la sua missione antifascista, comportandosi esattamente come le milizie repubblichine di Salò.

Le radici del fascismo sono penetrate in profondità e in ogni parte d’Italia se ne scorgono le tracce vivide. Sorgono alcune domande: cosa è rimasto intatto della fascistizzazione del Bel Paese?

In che modo il mondo “alto-borghese” di Giolitti e Orlando, Salandra e Sonnino, del generale Diaz e del re Vittorio Emanuele III, quello “operaio-proletario” di Gramsci e Matteotti, Pertini e Turati, e quello “cattolico-popolare” di Don Sturzo e compagni furono sconfitti dal maestro di Predappio? Perché vi furono più idee e movimenti democratici nei primi anni Venti rispetto ad ogni altro periodo storico dell’Italia unita (monarchica e repubblicana senza distinzioni)?

La risposta è nella cultura fascista e nel suo processo di nascita, crescita e sviluppo. Il Duce – ed il suo staff – traghettò un popolo riunito dalla Grande Guerra, fortemente analfabeta, massificato ed omologato da una propaganda di pochi liberali di “alto bordo”, alle spiagge sicure della grande nazione prima e dell’impero millenario poi.

La Kultur creata ed imposta dal “fascismo pensante” di Gentile, Bottai, Alfieri, Pavolini e seguaci, è la stessa, immutata nel tempo, che adotteranno i mitici partiti della “prima” repubblica italiana (PCI e DC in primis) dopo la biennale parentesi innovatrice del 1946-1948 – quasi in ossequio al Biennio Rosso. E che ancora oggi, nonostante i mass media globalizzati e globalizzanti, adottano quelli della “seconda” o “terza” res publica, così abili nel praticare quel nuovo sport a metà fra il trasformismo di Depretis e la proprietà commutativa delle moltiplicazioni. L’ABC della nuova politica, insomma.

Non è un caso se viviamo immersi nei misteri di politiche filo-americane mai chiarite, degli Anni di Piombo, delle logge massoniche e delle mafie, tutti portatori di stragi e vittime senza colpevoli. Uno su tutti: quella mancata volontà di sanare le ferite e pagare i conti con un ventennio ingombrante, un pezzo di storia che è stato bollato come “cattivo” e lasciato semi-sommerso nell’oblio, in quel luogo in cui sono da sempre le risposte alle attese e agli interrogativi di milioni di cittadini italiani.

Chi ha il coraggio e l’onestà di denunciare i soprusi di una cultura “al ribasso” – che con ogni strumento esige soltanto una massa di elettori ridotti al servilismo commerciale – è un continuatore della lotta denominata Resistenza.

La crisi che stiamo vivendo non è “solo” economica e politica: è soprattutto una crisi culturale. Siamo incapaci di riconoscerci come italiani, come cittadini di una repubblica, come difensori di una democrazia che vive nella misura in cui le diamo ossigeno, cioè giustizia sociale.

Il fascismo soffocò le coscienze di un popolo prendendolo per fame ed ignoranza, facendo in modo che fosse disarmato ed indifeso di fronte al “nemico”. E lo fece prima e dopo la Resistenza. Credo non sia il caso che accada un’altra volta.

Buon XXV Aprile!

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