Gardenio Granata, Ripensando a Kassandra
Ripensando a Kassandra: impotenza della parola di verità
Tutti sanno in generale chi fu e cosa rappresentò Kassandra / l’amore di Apollo per lei / il suo rifiuto / il dono di poter conoscere il futuro: un dono che, come tutti quelli elargiti dagli Dei, non poteva essere tolto e quindi la condanna a figura di profetessa inascoltata: In altri termini la metamorfosi del sapere in verità non creduta.
Perché ripensare a Kassandra? In quanto credo significhi tentare di capire cosa si celasse dietro l’immaginario mitico greco, che ne ha fatto un personaggio emarginato per l’inaccettabilità delle sue doti divinatorie, una veggente dell’incomunicabile, in contatto con forze demoniache, un “exemplum” dell’inutilità di un sapere impotente, una figura dell’assurdo-tragico, della nullificazione della parola. Parlare di Kassandra equivale a porci il problema del rapporto tra linguaggio divino e linguaggio umano /valutare il legame intercorrente tra Parola e Verità nel mondo greco arcaico / fare i conti con la sfera del diverso e dell’abnorme.
Una non greca dunque, e donna, come frantumatrice della verità greca e drammaticamente tesa a svelare, attraverso una parola trasgressiva, un mondo di orrori e di sangue nascosto dietro l’ipocrisia umana e la ferocia del potere. Significa penetrare nella disperata lucidità sulla condizione umana sospesa, senza esiti, fra sapere e agire. Linguaggio umano come luogo della decifrabilità e linguggio divino come sinonimo di oscurità, perdono in Kassandra la loro distinguibilità.
Normalmente il rapporto oracolo-consultante seguiva uno schema che potremmo definire comunicativo: la richiesta a diversi livelli (passato-presente-futuro) provocava una sfida oracolare, lanciata soprattutto alla “téchne” (tecnica) linguistica del consultante (Eraclito nel framm. 93, a proposito dell’oracolo delfico afferma: «né dice , né nasconde, ma indica attraverso segni»). Occorreva dunque possedere una abilità semiotica, una capacità di decodifica, quasi sempre assente o deficitaria e perciò foriera di sofferenze a fronte dell’indifferenza di chi emetteva il responso segnico.
Ebbene in Kassandra tutto ciò assume una diversa connotazione: il suo vedere oltre non è richiesto; la dimensione del dolore quale esito della non comprensione si ritorce su di lei. La sua dote divinatoria viene considerata un inarticolato suono di una bocca della follia. Senso e non senso (solo apparente) della parola divina ispirata, operano la metamorfosi del sapere in pura “phoné” → voce [in quanto suono prima di articolarsi in linguaggio], una “vox clamans”, un “lògos” (parola) senza efficacia! Ora per capire nell’intima sostanza l’essenza tragica di questa figura di donna, prima di analizzare il rapporto fra modalità espressive (nell’“Agamennone” di Eschilo, scelto come campo d’indagine) e risultanze antropologiche ed esistenziali, mi è sembrato opportuno chiarire il problema della parola in rapporto alla verità (“Alé theia”), prima che nella nascita della riflessione filosofica e nella Sofistica si elaborasse una rigorosa problematica del linguaggio.
L’elemento che nell’universo mitico contraddistingue la parola è l’indissociabile realizzazione che la qualifica, essa risiede tutta nella sua efficacia, nel “noésai” → decidere e nel “krènai” → portare a compimento, privilegio questo posseduto però solo dagli Dei e (in misura minore) dagli indovini “ufficiali” e dai poeti ispirati dal divino che è in loro. Un piano della realtà è delimitato, dunque, dalla parola poetica, da quella divinatoria e da quella oracolare: Apollo, quando profetizza “realizza” (nel senso del verbo “kràinein”→ cioè porta a effetto-compimento). A questo tipo di parola “efficace” si contrappongono le parole prive di realizzazione e quindi pertinenti alla dimensione del vano e dell’inutile.
Kassandra e la frantumazione della logica (greca)
Vi è dunque rapporto fra “alétheia” → la verità e il verbo “kràinein” → rendere efficace realizzando, visto che nel mondo greco arcaico la verità non è ancora un concetto ma vive direttamente nelle sue realizzazioni concrete. Solo ogni parola efficace vincola l’efficacia realizzativa di “alétheia” (la verità). Alla parola in questo ambito si legano la “Pìstis” (nozione legata a un giuramento, parallela alla “fides” dei Romani, atto di fede che autentica la potenza della parola sugli altri) e il suo valore complementare di “peithò” → la persuasione, la magia della parola, la sua capacità di seduzione).
Eschilo nel “Prometeo” al v.172, così la definisce con il suo stile immaginifico: «Con canti di persuasione dalla lingua dolce come il miele». Kassandra mette in evidenza il funzionamento capovolto della parola magico-religiosa. Nell’“Agamennone” è definita al v. 1241: «profetessa veritiera» (significativo che nella parola greca “màntis-mantiké” → indovino-arte della divinazione) si sia riconosciuta la presenza della radice indo-europea *men: che indicherebbe un moto potente e tumultuoso dell’animo, un accrescimento e potenziamento delle facoltà della “psyché”); per Platone la parola “mantiké” riconduce a “manìa=follia; essa non appartiene alla schiera di quegli indovini che cercano d’ingannare (v. 1195: «O sono una che cianciando va bussando alle porte con fallaci profezie?».
Ma per essersi fatta beffe della “pìstis”-“fides”, Apollo l’ha deprivata del potere di “peithò” (persuasione), come ci testimonia l’inizio del v. 1212 con il suo rapporto tra significante e significato iterato nei toni cupi e amari: «non convinsi nessuno in nulla» [la colpa “concreta” della bellissima vergine è consistita ne far credere al dio Apollo che sarebbe sottostata al suo volere, il dio infilò la sua lingua nella bocca di lei che subito gli sputò all’interno…la punizione del gesto è nota…!!! Non è chi non veda trattarsi di una brutale violenza da parte di Apollo!!!].
Ebbene il suo errore è stato ritenuto così grave che le sue parole sono divenute “àkranta” →inefficaci e non degne di “pìstis-fides”. La potenziale “alétheia” della profetessa viene relegata nella sfera della “non-realtà”. Novella Sisifo della parola ispirata conoscerà la tragedia del non comunicabile, “lògos” sciagurato di chi sa-di-sapere. La temuta oscurità dei suoi vaticini, la parola enigmatica, tradiranno la sua provenienza da un mondo sconosciuto, disseminato di fantasmi collettivi e perciò rifiutato come sinonimo dell’“illimite”. L’ambiguità diverrà allusione all’assurdo metafisico che nasce dalla spaventosa eterogeneità fra il sapere divino e la sua atomizzata espressione in parole.
L’“Ybris”→la dismisura, radice del male, dell’egoismo, della ferocia, della violenza dissennata, tutto ciò trapasserà dal mondo dell’uomo alla sua “bocca di verità” senza credito, rendendola quasi colpevole di quella folle tragedia di cui è inerme nunzia. Il paradosso della parola greca “alétheia” (il greco designa questa nozione di verità attraverso termini eliminanti → l’α privativo davanti alla parola “lèthos” → oblìo /dimenticanza) emerge in Kassandra (“etimo” → colei che brilla tra gli uomini) al suo massimo grado.
Kassandra non è vista ancora da Omero come dotata di capacità profetico-divinatorie; in “Iliade” (XIII, 366 / XXIV, 699) l’accento insiste particolarmente sulla sua seducente bellezza: «Migliore per bellezza fra le figlie di Priamo» e «Simile all’aurea Afrodite»; poi la truce scena raccontata da Agamennone a Odisseo, sceso nell’Ade, (XI, 421 sqq.) della sua morte e di quella di Kassandra sua schiava e forzatamente concubina): «Udii poi il grido straziante della figlia di Priamo che l’ipocrita Klitemnestra uccideva vicino a me». Il non agire denota il suo (di Kassandra) comportamento in Omero: si limita a deplorare, condannare, subire violenza e ingiustizia…
Tra amanti e assassini e bagni di sangue: Kassandra Crossing
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, è impossibile sapere fino a che punto Eschilo abbia innovato, facendo di Kassandra una profetessa che non ricorre ad alcun metodo speciale, una veggente posseduta da un dio e strumento passivo della sua volontà. Quello che appare sicuro è che nell’“Agamennone (prima tragedia nella trilogia dell’“Orestea” rappresentata nel 458 a.C.) il poeta pone sulla scena una donna in preda al delirio mantico. La vicenda è nota: (Accompagnato dalla sua prigioniera Kassandra, il vincitore di Troia rientra trionfalmente in Argo. Lo si vede avanzare nel palazzo, felice – dopo qualche inquietudine) – dell’accoglienza tributatagli e all’oscuro del complotto ordito nell’ombra.
La moglie Klitennestra ed Egisto, il suo amante, hanno deciso di farlo morire assieme alla sua concubina. Kassandra, durante questo tempo, resta immobile sul suo carro. L’astuta Klitemnestra imperiosamente invita Kassandra a seguirla nella reggia. Ma poiché la giovinetta non si muove e resta muta, la regina rientra sdegnosamente nel palazzo per raggiungere il marito Agamennone e compiere la tanto sospirata opera di morte.
Kassandra subirà la stessa sorte poco dopo che le sue crisi profetiche le avevano mostrato, come in uno specchio, il bagno di sangue di cui sarebbe stata vittima lei ed Agamennone). Dal momento nel quale la figlia di Priamo si accampa sulla scena (a partire dal v. 1072), la lingua divina, la lingua del destino non sarà più parlata dai vecchi Argivi che formavano il coro, capaci ormai di una visuale limitata, ma dalla profetessa di Apollo, in una prospettiva doppia e unica a un tempo: quella del suo destino e di quello di Agamennone (che è anche il destino degli Atridi): destini, l’uno e l’altro che si confonderanno. Le prime stralunate parole di Kassandra, le sue disperate invocazioni, grida irriflesse di chi si sente perduto piuttosto che riflessione cosciente di chi si piega davanti alla Divinità: «Ahi, ahi, ahimé , o terra, o Apollo, Apollo» (ripetute due volte) con il loro allitterante suono di dolore, annunciano il disordine interiore da possessione divina che sta per invadere la scena. «Vaticinare ella sembra di sue proprie sventure. Permane il soffio divino anche nel suo cuore di schiava» -dirà il Corifeo.
In preda al delirio profetico, Kassandra descrive le sue visioni in una successione di immagini rapide, intrise di sangue e vendette, che generano incredulità e stupore, quasi un effetto di straniamento a fronte del clima festoso per il ritorno di Agamennone. Essa ricorda i crimini passati che hanno piombato la casa di Atréo nella maledizione, l’assassinio dei fanciulli di Tieste, fatti a pezzi da Atréo, cotti e imbanditi al padre in un orribile e macabro festino. Tra l’annuncio della sorte che l’attende per mano di Klitemnestra (v. 1149): «Mi attende l’essere troncata in due con la scure» e il chiaro e sconvolgente vaticinio della sanguinosa fine di Agamennone (v. 1246): «Di lui dico che vedrai la morte», si situa la rapida descrizione della tragica e assurda condizione di Kassandra, imperniata sul riconoscimento del suo errore: «Pur avendo promesso a Loxìas (→ ambiguo → Apollo), mentii»; qui per la prima volta viene espressa la “culpa” originaria della giovane donna (→ promessa del bacio “linguoso” → sputo nella bocca di Apollo) e la molla del suo sventurato destino di “phrenomanés” (in preda al delirio) e “theophòretos” (rapita da divino furore / invasata dal Nume).
Essa non è dunque “teraskòpos” (chi osserva e spiega i prodigi) ma “thesphatelògos” (colei che rivela gli oracoli divini); il “terribile travaglio di una profezia sicura” che la sconvolge straziandola, ne emblematizza una “diversità”- “alterità” ulteriormente suffragata dai paragoni che, avvicinandola ad animali, paiono relegarla in una sfera di istintualità prelogica: «Pare che come una cagna abbia buone narici la straniera»; «giovenca incitata da un dio»; «uccello fra i cespugli a gemere di paura»; «biondo usignolo non mai sazio di gridi» (probabilmente perché l’angoscia la spinge a cantare di sciagure nella sua strana lingua profetica).
Lingua comunque non umana e che non può pretendere di fare i conti con la razionaltà greca, anzi la scavalca situandosi nell’incomprensibile e nell’ignoto… Solo un servo di palazzo (e nessuno lo ha mai notato!) dirà «anche la bellezza può nascondere oscure trame…. cancellare la pietà…» (frase-frammento che potrebbe aprire nuove porte che in questa nostra ricerca per limiti di tempo e spazio resteranno a malincuore chiuse)… Michel Foucault lavorava così!! Ma io non posso competere con quel grande e insuperato Maestro!!!
La lingua “nascosta”… Uno scontro “fatale” → Kassandra tra logica, emotività e incroci parentali
Kassandra è, per dirla con il Corifeo, «dentro una rete fatale», deve dunque obbedire all’invito-ordine di Klitemnestra a entrare nella reggia: ma è anche sulla diversità della lingua che poggia la sua diversità di persona (vv. 1050-52): «Ma se essa non ha una lingua barbara, ignota come quella di una rondine» -(i Greci erano soliti paragonare la parlata dei Barbari con il cinguettio inarticolato degli uccelli)- «parlandole dentro nell’animo, la persuaderò con le mie parole». Incalza Klitemnestra:«Se il mio parlare non intendi, rispondi almeno come fanno i Barbari, anziché con la voce, con cenni»; «sembra aver bisogno di un acuto interprete», sostiene il Corifeo.
Tra “phoné” e “lògos” (suono e parola) parrebbe situarsi lo spazio in cui vediamo muoversi Kassandra, barbara, asiatica, Troiana, nemica dello spirito greco, incapace d’intendere la lingua dei Greci intesa nella sua escludente e terribile logica. «Eppure assai bene so parlare il greco», protesta la straniera rivolta al Corifeo, che, paragonandone la lingua agli oracoli del pitico Apollo, difficili a comprendersi, alza una barriera non volendo intendere ed accettare la verità proferita da una barbara (la “Alétheia”- verità è solo greca!!): verità sul suo destino, su quello della casa degli Atridi, dei suoi capi, dei suoi Dei.
Kassandra sembra capovolgere il famoso precetto del “pàthei-màthos” (il conseguimento della saggezza attraverso la sofferenza): un tormento angoscioso si è rivelato per lei il sapere, un “sapere” che si contrappone alla “sophrosùne” (buon senso, saggezza, prudenza), come vi si oppone la “manìa” (nel duplice senso di follia e delirio divinatorio); le è negato raggiungere uno scopo con questo sapere. Se dunque vale la relazione capovolta (sapere che produce sofferenza), la dimensione divinatorio-oracolare viene a coincidere con il medesimo conflitto patito da Amleto fra agire e sapere: vale a dire la tragica e perciò bloccante conoscenza della condizione umana, intessuta di lotta, sofferenza e morte, le situazioni-modello individuate dal filosofo Karl Jaspers quale linea di demarcazione dell’universo tragico.
Kassandra si colloca oltre questa linea demarcante, nell’universo dell’“àlogos” dell’assurdo, inconsapevole specchio in cui rivivono altre due immagini di donne infinitamente diverse: IFIGENIA (figlia di Agamennone, follemente sacrificata per favorire un delirio di potere (il salpare della flotta greca dal porto di Aulide alla volta di Troia con venti propizi) [da notare che il nome stesso della mite fanciulla “nata da forte razza”, cela nell’iniziale IFI oltre l’idea della gagliardia e della forza, anche quella della violenza: radice indoeuropea *Veios-Sanskrito → Vayhh(s): Latino → Vis (forza-violenza)] e Kassandra viene sacrificata perché la ricorda “in absentia”; ed la bellissima Elena (moglie fuggitiva di Menelao fratello di Agamennone) l’amante adultera di Paride (fratello di Kassandra) suscitatrice di ogni rovina nella decennale guerra di Troia; Kassandra è giovane, anche lei molto bella ed è stata (seppur costretta) “koinòlektros” → compagna di letto di Agamennone): dunque il rapporto di Kassandra con Agamennone prevedeva questa possibilità di compresenza di figure “spettrali”.
Tra questi inestinguibili spettri svolge un ruolo che potremmo definire di “conferma” il procedimento pseudoetimologico con cui il Coro al v. 689 inanella epiteti legati a distruzione e morte, prendendo spunto dal nome di Elena (da cui una pseudo-radice “el-eléin” (prendere, rapire, uccidere, distruggere), per cui la moglie di Menelao e amante di Paride diventa “elénas elénaus” → distruttrice di navi / “élandros” → distruttrice di uomini / “eléptolis” → annientatrice di città. Di un consimile reticolo pseudoetimologico si serve l’invasata Kassandra, quando con un sottile ma terribile gioco di parole, lamenta la sua condizione di oppressa dalla figura fantasmatica di Apollo, collegandolo al verbo “apòllunai”→condurre a rovina, e quindi “Apòllon-apòlesas”→che mi fai morire / che mi perdi (un Apollo dio del nulla, obliquo, ostinato, che trascina a sconvolgimento quelli che gli resistono).
È dunque l’“àlogos” (l’assurdo) ciò che il delirio mantico di Kassandra ha “partorito”, per abuso di logica e di doppi sensi verbali, (per un “eccesso” di senso istigatole dal dio degli Oracoli attraverso una suggestione fonica nella sua dimensione dell’“in-calcolabile) non più “lògos” per un “dià-logos” ma solitudine disperata della parola muta e vaneggiante nel silenzio attorno a lei…
Conclusioni critiche su Kassandra
Mediante questo sapere che annulla e incenerisce, Eschilo ha voluto mettere in guardia i Greci contro l’abuso (per quanto inconsapevole, ma non perciò meno tracotante) della logica di ogni parola, così come li metteva in guardia, dopo Salamina, a non debordare dal loro territorio geografico. Con Kassandra Eschilo giunge al fondo di ogni aspetto della realtà: gli Dei (Apollo), la razza (gli Atridi), la Grecia (il Regno): una catastrofe del pensiero provocata da un “surplus” di “lògos” che avrebbe dato alla luce, in breve volgere di tempo, delle, secondo lui “mostruosità ontologiche”. Affondata la tragedia lo spirito greco si sarebbe convertito nel dialogo platonico, la sfida oracolare trasformata nella dialettica e poi in retorica, una conversione-trasformazione in cui danzare, cantare, poetare, scrivere sarebbero divenute attività guardate con sospetto ed equivoche!
Nel mondo arcaico greco, invece, la trasgressione è ancora la norma da cui usciva specularmente il rispetto di leggi non codificate ma superiori. Agamennone ha trasgredito, per il suo trionfo, tutto: finirà in un bagno di sangue; il figlio Oreste ucciderà Klitemnestra, la madre adultera e assassina, macchiandosi di una colpa altrettanto mostruosa, e otterrà un verdetto definitivo di assoluzione solo di fronte ad un tribunale presieduto da mitici giganti del Foro: Apollo e Atena (nelle “Eumenidi”). Il Greco, dunque, deve intrattenere con l’Asiatico dei rapporti di alterità. Kassandra, barbara, Troiana, prigioniera, profetessa, vinta, testimonia di questo “oltrepassare” quale è il rischio di ogni parola non conchiusa in/e su/ se stessa.
Essa spezza, frantumandola, una verità greca, quella della logica. Non si tratta più di una dismisura o di una misura della parola; la figlia di Priamo esprime con un’audacia ineguagliata il niente-di-ogni-discorso. Essa sarà capita e presa sul serio solo quando annuncerà profeticamente la propria morte. Tale è la vendetta del dio obliquo Apollo: far perdere la speranza della morte. Occorrerà attendere Dante per mettere in scena dannati che hanno perso anche questa speranza; intanto, qui Kassandra ci introduce nel labirinto interiore di questa speranza “assente”: non solo sa che sta per morire, ma sa quando e dove; riesce a rappresentarsi esattamente la sua fine miseranda: tutto ciò consente di comprendere il terrore degli uomini davanti alla logica estremizzata del loro linguaggio; infatti profetizzare non è soltanto proferire degli oracoli, parlare nel “vuoto”, ma veder concretarsi, quasi paradossalmente, il “vuoto” della parola.
Kassandra, per il “niente” che porta in sé, diviene una figura quasi “crudele” e persecutoria. Sofocle nell’“Edipo a Colono” opererà in modo che l’eroe, che più alto prezzo ha pagato per le sue sfide oracolari (Edipo), venga rapito ai nostri occhi in un “kosmos” illuminato e quasi capace di redimere. Qui, invece, nessuna illuminazione, nessuna redenzione, nessun sacrificio salvifico, solo un “nulla” grondante di sangue, grida selvagge, odori di morte. Una preda dunque? Kassandra così si autodefinisce. Una Barbara aggiogata, una preda inutile di cui ci si sbarazza mediante la logica contaminante del linguaggio: al cui interno fluttua la mina vagante che ne decompone gli esiti, dequalificandoli, sino a farli collimare con il tanto temuto “non – essere”.
Kassandra, che ha subito sessualmente Agamennone e rifiutato Apollo, forse ha raggiunto nell’ultimo attimo di lucidità, prima del massacro che la riconfina nella “bolla” eliminante dell’alterità, della “phoné” senza agganci al reale, quella tragica consapevolezza che la rende, a mio avviso, uno dei personaggi più assoluti del teatro: l’idea del niente, solo una bocca che sputa fuoco e ceneri!! Come dirà Schiller, nella lirica a lei dedicata, sintetizzandone la tormentata e assurda presenza: «Nur der Irrtum ist das Leben, Und das Wissen ist der Tod» (“Solo l’errore è la vita / e la conoscenza è la morte”).
Prof. Gardenio Granata
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