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Gardenio Granata, Sotto le parole, niente: dal vuoto della parola all’assurdo della vita ne «L’uomo dal fiori in bocca» di Pirandello

Rileggere questo atto unico significa fare i conti con l’assurdo che soggiace ad un dialogo “tra sordi”; una sordità emblematica degli egoismi e delle ipocrisie di una società apparentemente solida, in realtà disgregata al fondo, dove la parola o si presenta stanca interprete di una vita incolore, o drammatica indagine tramata su fantasie inascoltabili e inquietanti a un tempo.

Sono due “nulla” diversi quelli dell’Uomo dal fiore in bocca e dell’Avventore, sintesi di mali sociali e metastorici tra cui l’individuo si aggira ancora una volta, come nel popolare teatro dei pupi, legato ad invisibili e coartanti fili, dei quali la parola è l’inconsistente ed effimero collante. Nel “mare magnum” dei laceranti messaggi che la “bottiglia” pirandelliana continua a veicolare nel suo labirintico interno, quest’uomo, piagato da una sorte maligna, rivela tutta la sua sconcertante attualità, da una parte sovvertendo ogni proposta di felicità poggiante sulla normalità spesso patologica del quotidiano; dall’altra facendoci sentire l’urgenza di un vivere istintuale, libero e naturale, purtroppo sovente barattato con un routinario sopravvivere.

 

Dalla Novella all’Atto unico

Il passaggio non presenta notevoli variazioni, essendo pressoché identica la parte dialogica ad esclusione delle didascalie. L’unica e più importante modifica risiede nella diversa titolazione. La prima, “La morte addosso”, esplicita immediatamente la tematica principale, tratta com’è da un’osservazione del protagonista nella conclusione, quando afferma la morte non essere paragonabile ad uno di quegli “insetti schifosi che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso” e lo si può scacciare, se si tiene conto che “tanti che passeggiano disinvolti e alieni forse ce l’hanno addosso”. Il titolo della novella appare così molto diretto e tale da indurre il lettore a prefigurarsi l’aspetto crudo e tragico della vicenda. L’atto unico uscì a stampa nel 1926 con diverso titolo “L’Uomo dal fiore in bocca”.

A differenza del precedente, privilegia la figura del protagonista anziché la malattia; si avvale, infatti, della metafora allusiva del “fiore in bocca”, che in apparenza suggerisce una situazione idilliaca, mentre rivelerà solo in seguito la sua drammaticità. Si evidenzia così il modo con cui Pirandello si pone di fronte all’impiego della parola, spogliandola del suo significato quotidiano e utilizzandola per affrontare un argomento che, se messo in relazione al titolo, rivela una voluta scelta ossimorica.

Crea, dunque, un effetto di straniamento nel lettore-spettatore tramite questo paradosso non solo lessicale, basato sull’incongruenza tra la figura del fiore e quella della morte, ma anche tematico. L’immaginario collettivo tende, sul piano simbolico, a leggere nel fiore un’immagine di dolcezza-luminosità in contrasto con la cupezza della morte, anche se, a livelli più profondi, esiste fin dall’antichità tra fiore e morte un legame di cui Pirandello, cultore del mondo classico, è a conoscenza.

 

Assenza onomastica come processo universalizzante

Nell’opera pirandelliana è spesso ricorrente l’assenza onomastica, in quanto individualizzare ogni personaggio potrebbe essere riduttivo, visto che ciascuno dovrebbe rappresentare una realtà comune. L’autore, infatti, li identifica con nomi solo se strettamente funzionale e inerente alla vicenda. In questo caso ci troviamo di fronte a due uomini senza identità anagrafica precisata. Dal principio vengono presentati con degli pseudonimi che tendono ad esplicitare le componenti caratteriali ed esistenziali che assumeranno nella storia. Entrambi sono indicati con la maiuscola quasi a voler attribuire loro una più marcata personificazione. Pirandello non ci fornisce informazioni sulla vita del protagonista; l’autore lascia si evinca che il suo dialogo con l’Avventore si basa esclusivamente sulle proprie riflessioni. Rimangono sconosciuti il luogo in cui abita, l’aspetto fisico, età e professione; non viene data nessuna notizia di ciò che lo circonda, fatta eccezione per la moglie. Da qui l’assenza onomastica come processo universalizzante.

Questo procedimento è riscontrabile anche negli altri personaggi. L’Avventore rappresenta il classico borghese medio che vive in una dimensione piatta, contraddistinta dall’abitudinarietà, dove pure il rapporto matrimoniale si riduce ad una quotidiana ripetitività. Il termine “Avventore” viene sempre accompagnato dalla connotazione di “pacifico” al fine di enfatizzare la sua banale vita, i cui fastidi sono originati esclusivamente dai capricci della moglie e delle figlie.

La sua superficialità è resa manifesta anche nel dialogo con l’Uomo dal fiore in bocca, sicché non riesce a comprendere la complessità del dramma che incombe sull’altro, per cui le modalità espressive del suo interlocutore finiscono con l’apparirgli troppo strane o inquietanti; infatti non è un caso che non cerchi di proseguire sulla linea dialogica dell’altro e quasi sempre sposti il discorso verso le più rassicuranti, seppur tediose, incombenze cui soggiace. Sulla scena compare una terza figura che, però, rimane unicamente sullo sfondo: “è un’ombra di donna, vestita di nero, con un vecchio cappellino dalle piume piangenti”.

La sua identità scaturisce dalle parole dell’Uomo dal fiore in bocca: sarà lui stesso a presentarcela come sua moglie. Pur rimanendo nell’anonimato, l’autore ce la inquadra come “imago” dolorosa di una donna non solo partecipe del dolore del marito, ma anche emblema di una sconfitta senza resa, contraddistinta da pervicace umanità e ostinazione, a cui paga il prezzo altissimo di un ingrigimento precoce che la trasforma in un’eroina oscura senza ricompensa; cosa questa deputata ad assimilarla ad una figura fantasmatica, tesa in uno sforzo giudicato assurdo quanto vano. La donna si spoglia di tutto, specialmente della sua vita e della sua identità, entrando così di diritto fra i “disajutati” pirandelliani. Le sue “sviscerate cure” sono probabilmente solo un mezzo per ignorare l’effettiva realtà e per cercare di tenere il marito legato a sé.

Nonostante ciò, egli tende ad allontanarsi dalle mura domestiche, simbolo per lui di un forte senso di oppressione, al fine di evitare quella vita “normale” che la moglie prospetterebbe, come già gli ha proposto in passato, prima dell’insorgere della malattia. Tale affermazione si giustifica prendendo spunto dalla descrizione tutta emozionale del sistema di vita sperimentato dall’Uomo dal fiore in bocca nella propria casa. Appare evidente che il “povera signora” con cui l’Avventore stigmatizza la condizione della moglie del nostro protagonista innesca una disamina lucida e spietata riguardo la propria precedente residenza, puntando l’indice su particolari quali: “l’ordine perfetto di tutte le stanze, la lindura di tutti i mobili, il silenzio di specchio misurato dal tic-tac della pendola del salotto”.

Tutto ciò ad indicare una vita non certo soddisfacente, estremamente regolata, che la malattia spezza e demolisce producendo una serie di riflessioni “ribelli” rispetto ogni forma di “ordo rerum”; vale a dire la condizione in cui l’Avventore continua a vivere, o meglio a sopravvivere, pur senza rendersene conto. Il linguaggio usato dall’Uomo dal fiore in bocca, tagliente e penetrante come una lama, potrebbe apparire come un esito sconcertante, se visto nell’ottica benpensante dell’uomo medio, carico invece di valenze corrosive se considerato in quella pirandelliana, per la quale la famiglia è spesso il luogo deputato alla follia, alla assoluta banalizzazione e prosciugamento di qualsivoglia aspirazione ad affetti veri. La malattia ha dunque, leopardianamente, acuito le sue capacità indagative rendendole così spietatamente “deformanti”.

 

Dialogo o monologo?

Ci sono due personaggi seduti ai tavolini di un “caffè notturno”, è circa mezzanotte quando iniziano a conversare. L’incipit è immediato, senza nessun preambolo; è l’Uomo dal fiore in bocca, che già aveva intuito la posizione dell’Avventore, a cominciare il discorso con un: “Ah lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è… Ha perduto il treno?”.

In un primo momento la conversazione tra i due estranei sembrerebbe alla pari: le battute dell’Avventore sono anzi preminenti, in quanto devono fornire informazioni sulla sua condizione; poi il dialogo si sposta totalmente dalla parte dell’Uomo dal fiore in bocca e gli interventi del secondo risultano sempre più deboli e superflui per l’esposizione dell’argomento, fino al mutismo completo. L’esordio è banale, di assoluta pochezza significativa: si apprende solo il motivo della temporanea presenza dell’Avventore al caffè. Successivamente è l’Uomo dal fiore in bocca a reggere il discorso, proseguendo tramite associazioni di immagini, quasi un flusso di coscienza: il dialogo, poi, si trasforma in una sorta di monologo interiore, caricandosi di concetti più profondi.

L’Avventore non è abituato ad acrobazie mentali di questo tipo, come risulta palese dalle, seppur scarse, inadeguate intromissioni. Diventa quindi solo un “mezzo” che permette al protagonista di evidenziare la sua inquietudine, riducendosi così a puro ruolo di “spalla”. Manca, dunque, un confronto, ma la solitudine dell’Uomo dal fiore in bocca è tale da non lasciare spazio al dialogo. Questo “soliloquio” progredisce tramite immagini e salti logici: dalla descrizione dell’impacchettatura al bisogno di aderire con l’immaginazione alla vita, come un rampicante sopra una cancellata; poi il particolare alito della vita che cova in ogni casa richiama, per contrasto, la malattia e la morte; si passa quindi a parlare dell’abitazione del medico, dove viene identificata la funzione della poltrona delle sale d’aspetto, messa in relazione con la propria vita.

L’Uomo dal fiore in bocca viene successivamente distratto dalla moglie che lo spia, ma continua a parlare della morte che lo affligge e quindi del bisogno-gusto di vivere: di addentare le “labbra” succose delle albicocche. Sembra che il protagonista voglia persuadere l’Avventore circa la vanità della vita, quando invece appare lampante la sua bramosia di vivere a causa di quell’eccessiva indagine sul senso dell’esistenza. Entra in tale modo in una “stanza della tortura”, dove gli individui, interrogando se stessi e gli altri con un “surplus” di logica senza risposta, arrovellandosi, inscenano la loro protesta privi di un bersaglio preciso.

Apparentemente l’Uomo dal fiore in bocca sembra sottoporre ad inchiesta l’Avventore, ma ad essa sottopone esclusivamente se stesso, attraverso immagini tese a rinvenire un criterio e una logicità dove non esistono, mediante un eccesso di razionalità che lo conduce alla follia, alla fuga dai canoni, ricercando quel flusso vitale che non si realizza, anzi si sclerotizza, ingenerandogli sofferenza e portandolo all’isolamento. Risulta così palese che fra la canonica vita banale e ripetitiva dell’Avventore e la scelta della follia come fuga verso la libertà dell’Uomo dal fiore in bocca non può esserci che incomunicabilità totale. Lo stile e il linguaggio sono tipici del parlato, per questo il lessico non è ricercato, risultando più diretto ed efficace. Vi sono molti anacoluti, ripetizioni, ellissi del verbo, domande retoriche ed esclamazioni che il protagonista rivolge in verità a se stesso (quasi pause riflessive), anafore con valore rafforzativo (“con certi occhi… con certi occhi”), e reticenze emblematiche (“certe albicocche…”).

 

Metafora degli oggetti e il vuoto della vita

Il discorso che si sviluppa nella mente dell’Uomo dal fiore in bocca, proseguendo per associazioni di immagini, permette l’analisi di una notevole quantità di oggetti e personificazioni che hanno la funzione di esplicitare la condizione miserevole del protagonista e la sua “voracità” nell’addentrarsi in ciò che lo circonda. È sufficiente che l’Avventore menzioni i pacchetti lasciati alla stazione, che l’Uomo dal fiore in bocca inizia una lunga ed accurata descrizione “dell’arte speciale che mettono i giovani di negozio nell’involtare la roba venduta”.

Occorre però soffermarsi sulle parole usate, poiché non sono quelle normalmente impiegate per tale esposizione; infatti nascondono un secondo significato coglibile solo a fine lettura: l’esigenza irrinunciabile di assaporare la vita. Gli oggetti si animano di una caratteristica femminile: la carta è rossa, liscia, levigata; egli stesso vorrebbe essere quella stoffa, quel nastro, per essere toccato dalla grazia di quelle mani carezzevoli. Di seguito passa ad esaminare la sala d’aspetto del medico, il cui mobilio viene acquistato occasionalmente a poco prezzo e si presenta differenziato; mentre invece adorna il proprio salotto con le poltrone più comode, belle, lussuose.

Ma ciò che interessa l’Uomo dal fiore in bocca è la singola poltrona o seggiola che ospita, uno alla volta, i vari pazienti che non prestano attenzione ad essa, assorti come sono nel proprio male, mentre guardano, senza vedere, il dito che traccia percorsi vani sul bracciolo lucido. È lo stesso protagonista a spiegare l’analogia: l’assoluta indifferenza del contenente per il contenuto in attesa della sentenza; egli è una di quelle poltrone che viene occupata ora da una, ora da un’altra vita e immagina la loro realtà, senza interesse, senza piacere, anzi per percepire la vita sciocca e vana, per avvertirne il fastidio.

Le metafore più rilevanti compaiono verso la fine del testo. Le “labbra succose” delle albicocche, che si offrono a chi premendo con due dita apre codesto frutto, sono emblematiche, celano molti significati e sono analettiche ad altre parti del testo. Le labbra richiamano la bocca con cui, come poco prima spiegava all’Avventore, si può assaporare il gusto della vita che non soddisfa mai, poiché essa è ingorda di se stessa e lascia un senso di inappagata angoscia in gola. Ma la bocca è anche il luogo dove la morte, passando, gli ha lasciato un “fiore”, un “tubero violaceo” spuntato sotto il baffo e che lo destina alla morte. Le labbra rimandano anche alla bocca della moglie ch’egli rifiuta di baciare, poiché ella pensava di potersi contagiare per morire assieme al marito.

L’Uomo dal fiore in bocca immagina che l’Avventore mangi le albicocche con tutta la buccia perché non ha capito niente dalla vita, non sa percepire il mondo, si limita superficialmente ad esistere. Queste labbra succose sono invitanti, mentre lui sta morendo; possono dare la vita e offrire la possibilità di gustarla, di morderla, di sentirla dentro. Si rivestono, in questo modo, di un’acuta sensibilità di tipo tattile e di un forte senso voluttuoso. Allo stesso tempo acquistano questo significato anche le poltrone, che nel simbolismo onirico rappresentano “l’accoglienza” dell’organo sessuale femminile.

Questa straordinaria intensità di concetti si conclude con la richiesta di un favore: l’Avventore dovrà scegliere un cespuglietto d’erba e contarne i fili, a condizione che sia abbastanza folto, in quanto più fili conterrà, più giorni egli avrà da vivere. È un chiaro invito alla vita, proprio di chi è consapevole di perderla, a percepirne quel particolare alito che cova in ogni casa, anche se “… nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita”. Tutte queste metafore sfociano in personificazioni di immagini, umanizzate dall’Uomo dal fiore in bocca che, conferendo loro pensieri e parole, inquadra la vita in modo diverso dal normale, per segnalarne, nel contempo, il vuoto e il sapore inestinguibile; un assurdo, dunque, da cui non c’è via d’uscita…

 

Voglia di vivere vs L’assurdo della vita. Dare un senso all’insignificante: la parola denudata

È facile notare che il protagonista non è altro che una persona sola, che ha scelto di essere tale per evitare di vivere un’esistenza che non lo attrae, conscio che proprio da lui “la morte è passata ficcandogli un fiore in bocca”. Allora, immerso nella sua solitudine non può fare altro che osservare la vita altrui per inglobarsela dentro, con grande capacità di individuazione degli oggetti, ponendo estrema attenzione alle cose minimali, emblematiche della vita, ai più piccoli gesti, come se dovesse impossessarsi delle situazioni e degli atteggiamenti altrui, quasi non ne avesse più di propri, perché il tempo passa e si avvicina il momento della morte “addosso”.

Questa attenzione alle minime apparenze rivela la passione dell’Uomo dal fiore in bocca nell’osservare i commessi dei negozi mentre confezionano pacchi e pacchettini; trascorre giornate intere a guardarli “attraverso la vetrina”, attraverso quello schermo che lo separa dalla vita vera, per poi immaginare l’esistenza della gente a cui sono rivolti. “Ecco l’immaginazione… se si fermasse sarebbe la fine…”. Proprio servendosi di quest’ultima, l’Uomo dal fiore in bocca può aderire alla vita degli altri, per poterne sentire il fastidio e giudicarla “sciocca e vana”, al fine di contrastare così l’ineliminabile “gusto della vita”.

Dato che la morte, passando, gli ha lasciato un pegno, sente il bisogno di crearsi impegni ed occupazioni varie guardando dietro le vetrine, altrimenti, se gli si facesse “un momento di vuoto dentro” potrebbe ammazzare, o meglio, ammazzarsi, “ma…”; Proprio su questo “ma…” viene evidenziata un’immagine che lo riporta e lo trattiene tenacemente attaccato al gusto della vita: “ma ci sono di questi giorni certe albicocche…”.

Attraverso questa immagine viene espresso un forte attaccamento alla vita; chi desidera morire non può parlare dell’insaziabile bisogno di continuare a gustare le cose, che addirittura si animano di “femminilità”. Osserviamo la pretesa del protagonista di provare un assoluto disinteresse nell’aderire all’esistenza altrui, decisamente in contraddizione con il desiderio di vivere, poiché “non sappiamo da cosa sia fatto, ma c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia in gola, il gusto della vita che non soddisfa mai”… in quanto talmente ingorda di se stessa, da non lasciarsi assaporare. Assistiamo, quindi, ad un ennesimo tentativo di autoinganno; egli vuole avvertire la banalità dell’esistenza, in modo da convincersi che non dovrebbe importare a nessuno di finirla.

L’Uomo dal fiore in bocca è però subito pervaso da un desiderio vitale, dall’alito della vita, che purtroppo richiama per opposto la malattia, perché alla morte non ci si rassegna. È una voglia di vivere di cui solo chi sta morendo può capire l’importanza! Un desiderio di godere delle cose, diverso da quello dell’Avventore che pur potrebbe, ma è alienato in un’esistenza incolore, con i timori e le ansie del normale borghese. Proprio manifestando il suo disinteresse per le banali occupazioni, testimonia una travolgente passione esistenziale, la percezione di una vita che, per quanto noiosa, vana e sventurata, cioè decisamente assurda, conserva quell’inspiegabile, inestinguibile gusto.

Già dalla prima battuta il lettore-spettatore è in grado di interpretare la diversa tipologia dei due personaggi: la condanna a morte dell’uno lo inserisce nella categoria dei “grandi me” pirandelliani, la qualifica di “pacifico”, immediatamente dichiarata, inserisce l’altro nella categoria dei “piccoli me”. Durante il dialogo le pause dell’Uomo dal fiore in bocca sono molto frequenti, colmabili con l’interpretazione delle reazioni dei personaggi: la progressiva meraviglia, il disorientamento inquieto dell’interlocutore, il suo desiderio di riportare il discorso su di un piano di tranquillizzante normalità, infine il suo mutismo, quando tutti i tentativi di mantenere un colloquio basato su di un contatto superficiale, saranno miseramente falliti.

Evidente spia il piano linguistico in cui le sue repliche cominciano ad ospitare avverbi associati ai suoi “no” ed ai suoi “già”, come spiraglio conciliante per attenuare la risposta. Le pause segnalano il passaggio da un dialogo di superficie tra i due personaggi che andrà gradualmente esaurendosi, ad una riflessione monologante interna al protagonista che parla con se stesso e per se stesso. Il primo dialogo offre solo “occasioni” al secondo.

Come nel teatro di Pirandello si creano situazioni in cui gli uomini si torturano con domande cui non c’è risposta, coinvolgendo gli altri, allo stesso modo il protagonista sottopone a inchiesta l’Avventore, quindi se stesso, con un uso frequente di metafore e icone umanizzate, nonostante l’impossibilità di quest’ultime d’esprimere alcunché a causa del loro statuto di oggetti. L’Avventore, però, non ha dimestichezza con le metafore: c’è una “non risposta” in quanto le sue lamentele si fondano su di una situazione classica, un “topos”, pur ammettendo che dev’essere un bel piacere quello provato immaginando certe cose; l’Uomo dal fiore in bocca riflette con fastidio prima di parlare di questo suo “piacere” che sa drammatico: ciò perché conosce bene la sua situazione, assai lontana dal piacere supposto dall’interlocutore.

La parola è vuota e ognuno la riempie del mondo che ha in sé; piacere per l’Avventore è sinonimo di svago, di divertimento; per il protagonista esso equivale, invece, ad una “tattica” di annientamento, ad un dimenticarsi delle cose che lo sottragga al pensiero, altrimenti costante, della morte. Alla fine di una lunga battuta l’Uomo dal fiore in bocca allude ai “fastidi” della controparte, che spera in un appiglio per potersi nuovamente inserire in una discussione che gli sfugge; quei “fastidi” possono permettergli di tornare a lamentarsi della moglie, delle figlie, del lavoro, riportando così il discorso in un ambito dove ritrovarsi a suo agio.

Ma i problemi che offuscano la vita dell’Avventore, sono visti dal protagonista quasi alternativa positiva alla morte. Non esiste davvero possibilità alcuna di comunicazione fra i due. Entrambi hanno una moglie, per l’Avventore è una figura “ordinante” e lui esegue di malavoglia; dall’altra parte la figura femminile è carica di un dramma estremo e devastante la sua psiche: per l’interlocutore, quell’ombra tragica che gli viene descritta come “cagna sperduta”, “strofinaccio”, “stupida da strozzare e prendere a calci”, non è altro che… “Ah! La sua signora! Povera signora”.

L’Uomo dal fiore in bocca è in fuga dalla moglie, rifiuta le sue labbra “succose”, come rifiuta, per analogia, il male che lo ha colpito proprio in bocca. La moglie vorrebbe che egli conducesse una vita normale, quando la sua è una condizione anormale. Si lancia allora in fuga dal nucleo famigliare e ogni sua attenzione è catturata dai gesti e dagli atteggiamenti altrui. Nell’ottica comune borghese la sua è una scelta insensata, demenziale, rapportata al “clichè” introiettato dall’Avventore, alla sua conclamata aproblematicità; ma proprio questa scelta emarginante e “folle” lo esenta dal condividere ancora le stesse abitudini, le stesse soffocanti noie.

Ogni cosa detta dall’Uomo dal fiore in bocca acquista un significato diverso rispetto al punto di vista normale, perché sembra comunicare il “niente”, ma sotto, tra le righe, quel “niente” rappresenta il “tutto”. Un ciuffo d’erba, che presumibilmente non sarà mai colto, segna l’estremo messaggio affidato ad una verbalità sconnessa e paradossale, intrisa d’amarezza immedicabile. Quella notte livida ha inscenato un rovello dilaniante, dove le parole, apparentemente insensate, disegnano la trama infinita del nulla disperante della vita, un vuoto che neppure l’ombra d’un sogno può colmare. Tutto è deserto, dentro e fuori, mentre la vita impassibile continua con i suoi riti stanchi e ripetitivi. Una casualità cieca ha gettato il suo funereo “fiore” addosso a qualcuno, che così resta solo a torturarsi per capire l’incomprensibile, lacerante tentativo per darne un volto logico; ma “l’infernale macchinetta della logica”, ancora una volta, s’incepperà e si farà sipario sulle nostre povere parole, inutili conati senza futuro.

Per l’Uomo dal fiore in bocca, moderno Giobbe inquietante, nemmeno l’opportunità “rischiosa” di chiamare sul banco degli imputati un qualsivoglia Dio; per lui nessuna effimera speranza di una spiegazione. Un destino brutale e anonimo lo ha scelto quale casuale vittima! Non c’è appello, ogni consolazione naufraga nella sua inconsistente fragilità. Né c’è risposta nella notte buia in cui sta franando la sua vita e così il mistero del male e dell’umana sofferenza restano dolorosamente impenetrabili.

Prof. Gardenio Granata
7-9 Aprile 2021

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