Gardenio Granata, Parodia del sacro e polemica anticlericale nell’Inferno [Inf. VII, XIX, XXIII]
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»
[Inf. VII, 1]
Il paradigma sacro sotteso al poema dantesco informa di sé tanto il viaggio del pellegrino quanto la narrazione dell’auctor, prevalentemente nelle ultime due cantiche. Non bisogna tuttavia dimenticare che anche l’Inferno appartiene a quell’architettura dell’Oltretomba che la Trinità stessa ha ordinato, come d’altra parte già chiarisce l’iscrizione che Dante e Virgilio leggono sulla porta del primo regno.
La sacralità sarà dunque presente nell’Inferno in maniera “negativa”, come rovesciamento della sacralità rettamente intesa. In questo modo, la parodia sacra diviene per il narratore un espediente retorico cui attingere abbondantemente allo scopo di definire e descrivere i dannati e le loro pene. Il tema della parodia sacra nell’Inferno, benché piuttosto diffuso nell’esegesi puntuale dei canti, non ha ancora ricevuto un’attenzione sistematica: significativa è la mancanza di una voce ad esso dedicata nell’Enciclopedia dantesca.
Soltanto in tempi più recenti si è arrivati a riconoscere l’importanza di questo aspetto nel sostrato retorico e icastico della prima cantica: il primo, analizzando i rovesciamenti parodici operati nei confronti della Sacra Scrittura; la seconda, fornendo una rassegna dei pervertimenti della liturgia cristiana.
Ciò che in questa sede si vuole rilevare è che, sebbene il controcanto agli elementi sacri percorra tutta la prima cantica, la sua presenza diventa la chiave di lettura fondamentale di un intero episodio laddove al centro della scena si trovano uomini di Chiesa; questo significa essere la parodia sacra per Dante il principale veicolo rappresentativo della polemica contro il clero del suo tempo, reo di aver pervertito le istanze più sacre del proprio ministero e della fede cristiana in generale. Dopo la fugace apparizione di Celestino V tra gli ignavi, la cui vicenda è allusa nel breve spazio di una terzina famosa, i primi uomini di Chiesa a dominare la scena infernale sono i chierici puniti nel quarto cerchio, tra gli avari e i prodighi.
L’intemperante rapporto del clero con il denaro costituisce dunque il primo diretto attacco del narratore alla Chiesa romana: elemento già assai diffuso nella polemica anticlericale del Medioevo, tanto che il lettore trecentesco non doveva rimanere eccessivamente sorpreso dalla glossa di Virgilio:
«Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio».
[Inf. VII, 46-48]
Già il pellegrino, peraltro, aveva notato la presenza di uomini di Chiesa, che parevano costituire la tonalità dei dannati di quel cerchio:
Dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra».
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci […]»
[Inf. VII, 37-40]
Le fitte riprese lessicali saldano queste terzine nel segno di un’insistenza sulla “clericalità” dei peccatori in questione, mentre la rima «cherci : guerci» risulta già una mirabile condensazione del motivo polemico del canto. A partire dalla presentazione diretta dei dannati si può ravvisare una certa ironia – ma si tratterà qui di un’ironia aspra e dispregiativa – ad esempio nel particolare della tonsura («che non ha coperchio / piloso al capo») che rimane l’unico segno distintivo di questi ecclesiastici. Di vera e propria parodia si può invece parlare per altri elementi del canto, già dal verso alloglotto che ne costituisce l’incipit:
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»
Cominciò Pluto con la voce chioccia.
[Inf. VII, 1-2]
Il grido rauco di Pluto è stato da sempre l’oggetto dell’acribia critica dei dantisti, e molte sono le interpretazioni che ne sono state proposte. Benché una “traduzione” parola per parola sia possibile, e senza ricorrere a fonti particolarmente peregrine, ciò che ha maggior rilevanza per il tema qui trattato è che anche ad una lettura superficiale esso appare l’accostamento di due termini ben riconoscibili: uno, che allude al capo della Chiesa; l’altro, che chiama in causa il principe del male. Dante sembra qui preannunciare attraverso le parole di Pluto il motivo conduttore dell’intero episodio: la corruzione morale della Chiesa – nello specifico, nel suo rapporto con il denaro.
Questa prima considerazione è tuttavia priva di risvolti parodici – semmai, più genericamente ironici e polemici. Ma l’alloglossia del verso (fatto assai raro nell’Inferno, che lo accomuna soltanto al verso babelico di Nembrot [Inf. XXXI, 67] e all’incipit dell’ultimo canto [Inf. XXXIV, 1]) nonché la “geminatio” del «Pape Satàn» lasciano intravvedere uno stilema liturgico, o perlomeno scritturale. Tra le annotazioni più interessanti, peraltro, vi è quella che rinvia al grido di Gesù sulla croce (cfr. Mt. 27, 46: «Et circa horam nonam clamavit Iesus voce magna dicens: “Eli, Eli, lamma sabachtani?” hoc est: “Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me?”»): e si aggiunga fra l’altro che al «voce magna» di Gesù si oppone il «con la voce chioccia» di Pluto, nella stessa ottica di ribaltamento del testo sacro.
L’invocazione di Pluto sarebbe dunque una mimesi distorta di un motivo liturgico o biblico, che sostituisce alla divinità il nome di Satana. Se lo si pone in relazione con i numerosi incipit di canti del Purgatorio e del Paradiso che propongono invocazioni a Dio e alla Trinità, non si può non condividere che l’incipit in nomine diaboli anticipa, a rovescio, l’incipit in nomine Patris purgatoriale e paradisiaco. Il grido paraliturgico di Pluto, con il suo accostamento tra il papa e Satana, segnala fin dall’avvio il tono polemico che investe l’intero canto. Assai frequenti sono le espressioni sarcastiche nei confronti dei dannati, molte delle quali sono tanto più pungenti quando si consideri lo status di ecclesiastici che molti di essi rivestirono in vita: a partire dalla loro degradazione ferina («assai la voce lor chiaro l’abbaia», v. 43 – in cui torna la vocalità distorta che già caratterizzava Pluto) fino alla drammatica perdita d’identità a causa del loro stesso peccato («la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni», vv. 53-54).
In alcuni luoghi è anche percepibile un intento più precisamente parodico: si noti il caso della «danza» dei dannati («così convien che qui la gente riddi», v.24), del tutto priva dell’umiltà che caratterizza la danza di David (cfr. Purg. X, 55-69), nonché del valore liturgico ed epidittico delle coreografie paradisiache (cfr. ad esempio Par. X, 76-81); o quello della loro circolarità grottescamente interrotta – mentre il moto circolare è per il Medioevo e Dante simbolo di perfezione ed emblema della Divinità stessa. In ognuno di questi casi la lettera del testo sottintende un referente sacro che viene negato o distorto, proprio in relazione a quei peccatori che in vita ebbero maggiormente a che fare con quella sacralità.
Il canto VII dell’Inferno si conclude con il passaggio dei due pellegrini al cerchio successivo, che punisce iracondi e accidiosi – o, come sostengono altri, due differenti tipologie di iracondi. Per quanto non appartenga al cerchio degli avari e dei prodighi esaminato in precedenza, il fatto che entro i confini dello stesso canto sia collocato un nuovo elemento di parodia sacra ne conferma la validità come chiave di lettura di questo segmento testuale. La seconda categoria di dannati, in questo caso, è completamente immersa nella palude stigia, e le sue parole lamentose vengono associate da Virgilio ad un canto sacro:
«Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
Ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidioso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’inno si gorgoglian nella strozza,
ché dir nol posson con parola integra».
[Inf. VII, 121-126]
Il riferimento oppositivo alla liturgia pare evidente; il canto dei dannati è una sorta di inno alla tristezza («tristi» – «ci attristiam») dominato dal rimpianto della vita terrena, e forse implicitamente dal rimorso per non aver saputo rivolgere a Dio le dovute orazioni. Per di più, la loro prece grottesca si dissolve nella cacofonia di un gorgoglio in nulla somigliante alla dolcezza dei canti sacri che il pellegrino udirà nei due regni superiori.
Ancora una volta dunque viene evidenziata la distorsione della vocalità da parte dei personaggi infernali (oltre alla «voce chioccia» di Pluto e all’animalesco «abbaia» riferito ai dannati, le parole degli avari erano state definite «ontoso metro» [v. 33]), con una connotazione esplicitamente parodica – quasi fossero un vero e proprio controcanto rispetto alla verbalità sacra. Chiuso tra un “incipit” e un “explicit” dai toni paraliturgici, il canto VII, che porta sulla scena i primi ecclesiastici del poema, introduce così l’associazione fra elementi parodici e polemica anticlericale.
Nessun canto della Commedia pone al centro della scena anime di ecclesiastici come il XIX dell’Inferno: la simonia, infatti, punita nella terza bolgia, è vizio proprio degli uomini di Chiesa, poiché riguarda il commercio di sacramenti, cariche e titoli ecclesiastici. L’essenza nuovamente “economica” del peccato – che risulta essere un particolare tipo di “cupiditas” – crea un legame con lo stesso canto VII, ed esplicita così una delle direttrici principali della polemica anticlericale del poema. Tutto il canto XIX è percorso da aree semantiche di derivazione biblica che sottolineano la natura profondamente sacrilega del peccato in questione.
Ne è un esempio la metafora sponsale, che se nel testo sacro indicava il rapporto di amore tra Dio e il suo popolo, nel caso dei simoniaci si converte in un empio adulterio:
O Simon Mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon esser spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che nella terza bolgia state.
[Inf. XIX, 1-6]
Su questo tono prosegue tutto l’episodio: la Chiesa prima definita «bella donna» (v.57) si abbassa a «puttaneggiar coi regi» (v. 108), per il peccato del papa («marito», v. 111) che s’è appropriato di un’illegittima «dote» (v. 116). Allo stesso modo, la dittologia del verso 4 («per oro e per argento»), verrà ripetuta con minime varianti altre due volte, al v. 95 e al v. 112; il sostrato è sempre biblico, come dimostrano i molti luoghi della Sacra Scrittura che utilizzano la dittologia con la stessa funzione di rimprovero morale:
“Simulacra gentium argentum et aurum, opera manuum hominum. Os habent et non loquentur […]”
[Ps. 113B, 4-5]“Ipsi regnaverunt et non ex me; principes exstiterunt, et non cognovi; argentum suum et aurum suum fecerunt sibi idola, ut interirent.”
[Os. 6, 4]“Nolite possidere aurum neque argentum neque pecuniam in zonis vestris, non peram in via neque duas tunicas neque calceamenta neque virgam; dignum enim est operarius cibo suo.”
[Mt. 10, 9-10]“Petrus autem dixit: argentum et aurum non est mihi: quod autem habeo hoc tibi do; in nomine Jesu Christi Nazareni surge et ambula.”
[Act. 3, 6]
In entrambi i casi, la tessitura semantica del testo sacro viene utilizzata contro gli uomini di Chiesa puniti nella terza bolgia – sia operando un rovesciamento dei suoi significati (come nel caso della metafora sponsale), sia recuperandone l’intento polemico e quasi identificando gli ecclesiastici con i pagani, contro i quali era diretto il testo biblico. L’identificazione dei papi con gli idolatri per il “culto” riservato al denaro è per di più confermata dalla terzina finale del discorso del pellegrino:
«Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?»
[Inf. XIX, 112-114]
L’idolatria dei simoniaci, che fecero del denaro un vero e proprio feticcio, sembra in particolare assumere un risvolto liturgico: l’uso del verbo “orare” suggerisce ch’essi rivolsero le loro preghiere e la loro fiducia non al Dio che in quanto papi rappresentavano, ma ai denari che “simoneggiando” guadagnavano.
La liturgia è però esclusa dall’Inferno, e i dannati non pregano: si tratterebbe perciò di una di una parodia liturgica, che condanna i simoniaci a mantenere una postura di prosternazione senza possibilità di rivolgere una preghiera a Dio. In effetti il contrappasso che colpisce i simoniaci, confitti a testa in giù nei «fóri» della terza bolgia, sembra essere al centro della tonalità parodica dell’intero episodio – come già diversi studiosi hanno sottolineato.
L’immagine dei papi precipiti e sgambettanti crea straniamento quando la si confronti con l’elevatissima dignità del ministero da essi ricoperto in vita:
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d’un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
Muoversi per su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.
[Inf. XIX, 22-30]
La postura dei simoniaci rende a livello icastico ciò che nella lettera del testo è alluso attraverso gli intertesti biblici: in chiave di rovesciamento è così leggibile tutto il canto, come prova l’insistenza sull’opposizione basso-alto («O qual che se’ che ’l di su tien di sotto», v. 46). Il capovolgimento dei papi, peraltro, risulta ancor più grottesco qualora s’intraveda un legame antitetico tra la «pietra» caratterizzante la terza bolgia e la «pietra» sulla quale Cristo ha fondato la propria Chiesa (cfr. Mt. 16, 18).
Tutto il canto allora potrebbe essere percorso dall’opposizione fra «Simon Pietro» primo dei papi, e «Simon Mago» capostipite dei simoniaci – tra la Chiesa nella sua originaria e autentica essenza, e la Chiesa pervertita dei tempi di Dante. Il contrasto delle due dimensioni è ben presente nella requisitoria finale del pellegrino («Deh, or mi dì: quanto tesoro volle / Nostro Signore in prima da San Pietro / ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?», vv. 90-92), ma è probabilmente implicito nella posizione stessa dei dannati, confitti in una pietra infernale.
La successione stessa delle anime, inoltre, potrebbe costituire una parodia della successione apostolica che i papi profanarono:
«Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure della pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’io credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l subito dimando»
[Inf. XIX, 73-78]
L’avvicendamento dei discepoli di Simon Mago sostituisce, all’Inferno, quella dei successori di Simon Pietro: la dignità apostolica s’è trasformata in una grottesca parodia. Un altro interessante aspetto del canto è la possibile presenza di allusioni sacramentali, tanto più pertinenti se si consideri che i protagonisti dell’episodio sono proprio coloro che i sacramenti amministrarono.
Già una controversa similitudine all’inizio del canto aveva fatto riferimento al rito del battesimo – quale che sia l’interpretazione corretta del termine «battezzatori» e dell’episodio autobiografico. Abbiamo individuato il rapporto intertestuale con un brano del profeta Geremia (Ier. 19, 1-11) che attribuisce al gesto della rottura del vaso un significato profetico in senso anti-idolatrico e anti-sacerdotale. L’azione apparentemente sacrilega di Dante sarebbe quindi un avvertimento («suggel») contro chi ha realmente profanato i sacramenti – in tal caso, i papi simoniaci. Anche le fiamme che stazionano sui piedi dei simoniaci, nonché il riferimento alle «cose unte» (v. 28), hanno suggerito allusioni sacramentali – rispettivamente alla Confermazione e all’Ordine sacro – per la presenza dei loro simboli (le fiamme, appunto, e il sacro crisma): essi sarebbero un ulteriore tassello per ricostruire la profanazione dei sacramenti da parte dei simoniaci, sottolineata attraverso la parodia.
Ben più evidente appare tuttavia l’allusione parodica al sacramento della Confessione, allorché Dante, per comunicare con papa Niccolò III, si china verso la buca:
Io stava come ’l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
richiama lui per che la morte cessa.
[Inf. XIX, 49-51]
L’associazione tra un papa e un «perfido assessin» è di tono profondamente ironico, soprattutto allorché viene immortalato nel tentativo disperato di procrastinare la propria esecuzione capitale. Ma c’è di più: quel papa che avrebbe dovuto garantire la validità del sacramento della Confessione è degradato a mero criminale confessato da un laico; ancora una volta la sarcastica condanna di Dante passa attraverso la parodia di un sacramento. Il canto XIX è dunque dominato da un costante dialogo con gli intertesti biblici – dialogo che assume perlopiù la dimensione di un ribaltamento parodico o polemico dei contenuti della fede. La netta prevalenza di modelli e contesti profetici (Geremia e L’Apocalisse) e apostolici (gli Atti canonici e apocrifi) indica che Dante sta rivendicando per sé un ruolo che, seppur già presente “in nuce” nei primi canti, viene ora esplicitato con inusitata chiarezza.
Egli raccoglie tutte le risorse scritturistiche possibili, contaminandole, modificandole, rovesciandole, per esprimere con forza la condanna non solo della simonia in quanto sacrilegio, ma di una più ampia incomprensione del proprio ruolo spirituale da parte del papato del suo tempo. Per la prima volta nell’Inferno la retorica biblica e la parodia sacra assumono un valore politico, e contribuiscono a definire le caratteristiche di quella che si potrebbe definire un’anti-Chiesa infernale, costituita da ecclesiastici dagli attributi grotteschi.
L’altra copiosa schiera di uomini di Chiesa punita nell’Inferno è la «turba» degli ipocriti nella sesta bolgia – ma questa volta il vizio sembra riguardare più i religiosi che il clero secolare. Se il primo segmento del canto XXIII (vv. 1-57) è dedicato alla conclusione dell’episodio precedente, il narratore sembra anticipare il clima del nuovo episodio già nella prima terzina, che porta sulla scena la tematica fratesca dominante il canto:
Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavan l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.
[Inf. XXII, 1-3]
Al termine di un inserto coerente con il ritmo accelerato e irrisorio della bolgia dei barattieri, l’ingresso nella nuova bolgia torna sugli stessi toni pacati e devoti dell’incipit:
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
[Inf. XXIII, 58-60]
L’incedere lento e compunto dei dannati sul fondo della bolgia è analogo a quello dei due pellegrini all’inizio del canto – il che istituisce evidentemente un legame tra le due immagini. Come già nel caso degli indovini, gli ipocriti percorrono la bolgia con ritmo processionale, anche se in questo caso il clima monacale è ancora più patente:
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì ch’egli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.
[Inf. XXII, 61-66]
Di nuovo, una fitta rete semantica attraversa il canto e ne suggerisce la sfumatura: «frati» e «frate», nel senso di “religiosi” e “religioso”, occorrono sei volte (vv.3; 103; 109; 114; 127; 142); compaiono inoltre «cappe» (vv. 61; 100), «cappucci» (v. 61), «monaci» (v. 63), «stola» (v. 90), «collegio» (v. 91), «concilio» (v. 122). La sesta bolgia è così trasformata nella parodia di un monastero medioevale, di un chiostro percorso da frati vestiti con stole dorate all’esterno e plumbee all’interno – una pena probabilmente suggerita a Dante dalla paraetimologia di Uguccione da Pisa.
Il pianto e la lentezza del loro incedere non sono dovuti alla meditazione e alla contrizione per i propri peccati, bensì manifestano la loro sofferenza per la pena infernale, eterna e immutabile. L’ipotiposi dell’ipocrisia, resa dall’ambiguità delle cappe monacali, porta dunque in scena la polemica contro i religiosi del tempo di Dante, cui questo vizio era largamente attribuito anche da altri testi letterari: e si pensi ad esempio alla figura di Falsembiante nel “Fiore”, che quell’ipostasi esplicitamente incarnava:
I’ sì mi sto con que’ religiosi,
religiosi no, se non in vista,
che ffan la ciera lor pensosa e trista
per parer a le genti più pietosi.
In questa quartina si trova la stessa opposizione tra un «fuori» bello e puro, e un «dentro» sozzo e peccaminoso, che governa il contrappasso dantesco. Sottotesto comune potrebbe essere il Vangelo matteano, laddove Gesù fa dei religiosi ipocriti il proprio bersaglio polemico:
Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae, quia mundatis quod deforis est calici set paropsidis,
intus autem pleni estis rapine et immunditia! […] Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae,
quia similes estis sepulcris dealbatis, quae a foris parent hominibus speciosa, intus vero plena
sunt ossibus mortuorum et omni sporcitia! Sic et vos, a foris quidem paretis hominibus iusti,
intus autem pleni estis hypocrisy et iniquitate.
[Mt. 23, 25-28]
«deforis / a foris» – «intus» sono i termini dell’antitesi nel testo biblico come nel testo dantesco («di fuor […] (ma) dentro» dei vv. 26-27 e 64-65), mentre il «dipinta» del v. 58 ha la stessa sfumatura di bellezza apparente dei «sepulcra dealbata» nella requisitoria gesuana. Di nuovo Dante si serve del testo sacro per colpire polemicamente uomini di Chiesa, e costruisce una parodia di atteggiamenti devoti (la processione fratesca) per ironizzare sulla loro dannazione.
L’ultimo terzo del canto porta in scena un piccolo gruppo di dannati che subisce una punizione diversa da quella degli altri ipocriti. La transizione fra le due sezioni narrative è segnalata dall’aposiopesi e dal brusco enjambement, indizi retorici della particolare “novitas” della materia:
Io cominciai: «O frati, i vostri mali…»;
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
un, crocifisso in terra con tre pali.
[Inf. XXIII, 109-111]
Il verso 111 è già di per sé sufficiente per l’individuazione di una nuova parodia sacra: si tratta infatti di un dannato “crocifisso” in orizzontale («in terra»), con evidente ribaltamento della crocefissione di Cristo (nonché di quella analoga e contraria di Pietro). La verticalità della crocifissione di Cristo ha peraltro un sicuro valore teologico, poiché divenne ben presto l’immagine della riconciliazione fra cielo e terra, tra Dio e l’uomo:
Ergo quia nec ipsa sidera in conspectu Dei pro humano crimine erant pura, et erat tota terra polluta, ideo suspensus est Christus in aere, ut simul terras et astra purgaret; aut quia ipse dixerat: Sicut Moyses esaltavi serpentem; ideo cruci suspenditur, ut adimplerentur verba quae Creator praedixerat, aut, quia inter coelum et terram grandis erat discordia, ut tolleret reconciliator, se mediante, scandalum. In aere suspenditur, ut, se in medio posito inter coelum et terram, et inter hominem et Deum, pax rediret post odium.
Il dannato (si tratta del sacerdote Caifa, come si apprende ai vv. 115-117) non è «suspensus» ma «confitto», non è crocifisso «in aere» ma «in terra», non porta la pace fra la terra e il cielo bensì è condannato dalla giustizia divina al tormento eterno. Il ribaltamento anche fisico delle prospettive teologiche è palese, e ancora una volta viene sfruttato in senso polemico contro uomini religiosi: Caifa e gli altri membri del Sinedrio sono così affiancati ai religiosi medioevali nel nome dell’ipocrisia. A completare la pena di questo particolare gruppo di dannati è la stessa schiera degli ipocriti, che percorrendo lentamente la bolgia calpesta i crocifissi:
«Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria»
[Inf. XXIII, 118-120]
Il richiamo alla gravitas («pesa») percorre in realtà tutto il canto, e pare una delle chiavi di comprensione dell’episodio: alla stessa area semantica appartengono infatti «gravi» (v. 65), «faticoso» (v. 67), «peso» (v. 70), «carco» (v. 84), «grave stola» (v. 90), «pesi» (v. 101»), «bilance» (v.102). Come ha acutamente proposto Erminia Ardissino, il passaggio degli ipocriti gravati dalle stole plumbee sopra Caifa crocifisso a terra potrebbe richiamare il tema patristico della croce come “bilancia” dei peccati dell’umanità.
Se già il brano matteano della polemica contro gli ipocriti utilizzava la metafora del “peso” dei peccati, esso trova la sua compiuta definizione ad esempio in Gregorio Magno, che glossando in senso “tipologico” un versetto del libro di Giobbe («Utinam apprenderentur peccata mea, quibus iram merui, et calamitas quam patior, in statera. Quasi arena maris haec gravior appareret»: Job. 6, 2-3), riferisce a Cristo proprio quel ruolo di “statera” dei vizi e delle virtù di ogni vivente:
Christus libra est in qua et quod meremur, et quod pro nobis passus est, pensantur. Poenae nostrae gravitatem nobis notam fecit. Quis alius staterae nomine, nisi Dei et hominum mediator exprimitur? […] Sed gravis ponderis calamitatem moriendo innotuit, et apud misericordiam leve esse peccatum relaxando monstravit.
Anche Venanzio Fortunato, nel suo inno alla croce (poi ripreso da Dante in Inf. XXXIV, 1), chiama in causa la stessa immagine del sacrificio di Cristo come bilancia:
Beata cujus brachiis,
pretium pependit saeculi,
statera facta est corporis
praedam tulitque Tartari.
Questa metafora patristica sembra allusa nel canto XXIII dell’Inferno allorché l’insistenza sul «peso» delle cappe degli ipocriti diventa strumento della pena nei confronti degli uccisori di Gesù – i quali, distesi a terra e «attraversati» dagli altri dannati, sono come bilance che avvertono il peso dell’ipocrisia. Un ultimo elemento va forse considerato. La pena degli ipocriti e quella del loro gruppo particolare – Caifa e i membri del Sinedrio – sono diverse, ma strettamente interrelate, al punto che i primi divengono strumento di pena per i secondi.
L’intersecarsi dell’atmosfera processionale e dunque liturgica, che domina la prima parte dell’episodio, con il tema della croce, potrebbe costituire i termini di una parodia delle processioni in onore della croce. Nella sesta bolgia, infatti, i «vexilla Regis» non sono innalzati da coloro che guidano la celebrazione, ma calpestati dall’intero corteo – anche perché la crocifissione orizzontale di Caifa manca effettivamente della croce. Lo stesso elemento che sarà determinante nell’interpretazione parodica di Inf. XXXIV, 1 – l’immobilità della croce nell’ambito di una processione solo apparente – pare sottolineato anche in questo caso attraverso l’adynaton, cioè, di un “corse” che concorda, per la grammatica, con un corpo immobile al suolo (cfr. Inf. XXIII, 110-111).
La liturgia medioevale subisce qui un grottesco rovesciamento, in quanto officiata da una schiera di dannati con le sembianze di frati che calpestano un crocifisso invece di portarlo in processione. Nei tre canti infernali presi in esame (VII, XIX, XXIII) la schiera dei dannati s’identifica con uomini di Chiesa, perlomeno secondo il punto di vista offerto dal narratore: segno che il vizio di cui si tratta è da imputarsi particolarmente agli ecclesiastici.
In questi episodi la polemica anticlericale di Dante raggiunge l’apice, e la sferza verbale ed icastica di cui s’avvale è proprio la parodia sacra: termini ed episodi biblici, riti liturgici e concetti teologici vengono rovesciati per mostrare il pervertimento che di quegli stessi valori operarono ecclesiastici iniqui. Nel mondo alla rovescia dell’Inferno vive un’anti-Chiesa condannata a perpetuare in eterno il proprio sacrilegio.
Prof. Gardenio Granata
4 Dicembre 2021
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