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Gardenio Granata, Massimiano: fra tramonto della vita e tramonto della civiltà

“Imprigionato” in casa, in particolare nel mio studio, mentre lancio uno sguardo da varie finestre verso un vuoto che nulla pare in grado di colmare, un mondo fantasmatico che mi riporta alla memoria una scena sublime del capolavoro Felliniano “Amarcord” con la musica struggente di Nino Rota; un vecchio si muove circondato da una nebbia fitta e dice tra sè “mo lora s’l’a mort l’è acsì…”, dove nella sua meraviglia inquieta e spaventata recupera attraverso il filtro felliniano un “topos” classico.

Il mondo dei morti immaginato dagli antichi (la terra dei Cimmeri) come un luogo nebbioso e inconsistente… e ripenso a ben altri Natali dove cavalcavo la tigre di anni assai diversi, pronto ad abbeverarmi a qualsivoglia forma di piacere, incurante che sarebbe arrivato un giorno, quello del tramonto… e non solo mio ma anche di una civiltà.

Ecco allora Massimiano, grande poeta pochissimo noto, vissuto presumibilmente nel VI secolo d.C., che miscela la fine di una vita individuale con la fine di un’epoca: da un lato descrivendo impietoso la desolante miseria della vecchiaia, dall’altro, ultimo “nepote” della gloriosa civiltà classica e pagana, alzando il compianto per un mondo e una visione dell’essere ormai tramontati.

Comunemente si collega il suo nome, sull’onda dei ricordi liceali, ai noti endecasillabi incipitari del Sonetto II di Foscolo: “Non son chi fui; perì di noi gran parte: / questo che avanza è sol languore e pianto” che traducono, seppur con una certa libertà poetica, un distico della Elegia I (vv.5-6) del “corpus” massimianeo: “Non sum qui fueram: periit pars maxima nostri; / hoc quoque quod superest languor et horror habent” → “Non sono qual ero: s’è perduta di me la maggior parte; / ed anche quel che avanza vincono debolezza e tremito” (la resa italiana è mia!).

Notiamo nelle sei Elegie una varietà di toni che va dall’ironia amara al lamento, dall’erotismo più acceso alla considerazione filosofica, un tema in sé doloroso: la perdita del vigore fisico e dell’energia vitale caratterizzanti la vecchiaia (sic!). L’anziano poeta, giunto ormai alla resa dei conti con se stesso e con il mondo, si abbandona all’assalto dei ricordi di gioventù, intercalandoli alle valutazioni sagge (con fatica) o disincantate dell’età senile.

La memoria corre alle delizie ma anche agli errori della gioventù, ben sapendo che nulla potrà più essere richiamato in vita o modificato: si tratta soltanto di strategie della vecchiaia per colmare la paura del nulla con vane meditazioni. Ma la grande lezione che anche questo tardo epigono di una grande civiltà e letteratura ci lascia, a saperla cogliere, consiste proprio in quello che rende noi donne e uomini di un presente ansioso e turbato per lo più naufraghi fra sensi di colpa inutili, un eros legato al peccato, incapaci di godere senza mentalità conventuale!

Massimiano rimpiange davvero quei momenti, quei piaceri cosa questa che indurrà il Conte Giacomo Leopardi a scrivere una frase lapidaria: “Gli antichi sapevano morire vivendo, noi invece viviamo morendo”. Ebbene pensate un po’ cosa è venuto a galla in questa notte di Natale! Mi auguro che quelli che leggeranno tale mio scritto non si annoieranno troppo… Del resto se dovesse capitare dico loro: non mi resta che far risuonare la famosa frase di Re Edoardo III in difesa della propria amante: Honni soit qui mal y pense. Buon Natale a tutti!

Prof. Gardenio Granata
25 Dicembre 2020
in piena pandemia Covid-19

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