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Le Sette Meraviglie del Mondo Antico

Si parla spesso delle celeberrime “Sette Meraviglie del Mondo”, ma altrettanto spesso si ha difficoltà a ricordarsele tutte, ed ancor più difficile è sapere i dettagli salienti di ciascuna di esse: dov’erano, chi le costruì, com’erano fatte e come scomparvero.

Mi sembra pertanto utile stilare un articolo che riassuma le loro caratteristiche principali ed illumini il lettore comune su alcune nozioni di base in materia di Storia Antica.

È buona norma iniziare con il loro elenco:

  • I Giardini Pensili di Babilonia
  • Il Colosso di Rodi
  • Il Mausoleo di Alicarnasso
  • Il Tempio di Artemide
  • Il Faro di Alessandria
  • La Statua di Zeus
  • La Piramide di Cheope

per passare poi a trattarle una per una.

I Giardini Pensili di Babilonia

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Situati nell’antica città di Babilonia (letteralmente, Porta del dio), vicino alla odierna Baghdad (Iraq), i giardini pensili di Babilonia furono costruiti intorno al 590 a.C. dal re Nabucodonosor II (anche se la tradizione attribuisce la loro costruzione alla regina assira Semiramide).

La leggenda vuole che una regina trovasse nei giardini rose fresche ogni giorno, pur nel clima arido che caratterizzava la città. Va notato che nella cultura tradizionale della Mesopotamia, il significato della parola ‘giardino’ somiglia a quello di ‘paradiso’. Alcuni storici sono in disaccordo sull’esistenza reale o meno dei giardini della città di Babilonia.

La questione della localizzazione dei giardini è ancora oggi irrisolta e gli studi, ancora in corso, hanno lasciato emergere le più varie ipotesi, tra cui anche quella che Babilonia non ospitasse affatto una delle Sette Meraviglie del mondo antico, poiché le fonti antiche, pur concordando nella descrizione dei giardini, non ne forniscono alcuna localizzazione precisa all’interno della città.

Una prima teoria fu fornita dall’architetto tedesco Robert Koldewey, il primo a condurre scavi sul sito, tra il 1889 e il 1917. Egli teorizzò che i giardini dovessero trovarsi nell’angolo nordorientale del Palazzo Meridionale, poiché in quel luogo egli aveva portato alla luce un’enorme struttura coperta da volte a botte e composta da quattordici stanze, cui il muro stesso di recinzione faceva da delimitatore. Determinante fu il ritrovamento, in uno di questi ambienti, di un pozzo con dei fori, prontamente ricondotto al sistema di approvvigionamento idrico. Tale teoria aveva però il suo limite nella lontananza del sito dall’Eufrate, dal quale veniva attinta l’acqua per l’irrigazione, e nel fatto che l’accesso ai giardini poteva avvenire solo attraversando stanze private e uffici. Inoltre, con il proseguire degli scavi, sembrò più plausibile che le stanze portate alla luce dal Koldewey fossero ambienti destinati all’immagazzinaggio di merci.

Una seconda teoria fu avanzata da Donald John Wiseman, che colloca i giardini “sopra e a settentrione della grande muratura a ovest” del Palazzo Sud, dalla quale si sarebbero estesi i giardini, presso le rive dell’Eufrate.

Nella prima metà degli anni Novanta lo studioso D.W.W. Stevenson propose un’altra tesi (affermava infatti che i giardini non potessero trovarsi dove indicava il Wiseman poiché all’epoca di costruzione l’Eufrate aveva già coperto la zona in questione) secondo cui i giardini sarebbero stati un edificio a terrazze indipendente ma molto vicino al Palazzo Meridionale, e probabilmente a sud di esso. Di questa struttura non abbiamo, a tutt’oggi, traccia alcuna.

Dai più recenti studi è emersa anche la teoria (sostenuta da Stephanie Dalley) secondo cui i giardini non sarebbero stati affatto situati in Babilonia, ma nella vicina città di Ninive. La Dalley ravvede nelle fonti classiche una confusione tra Babilonia e Ninive dovuta al fatto che il passaggio dal potere assiro a quello babilonese non fosse stato percepito come una soluzione di continuità dagli autori classici, che continuavano ad individuare un generico “regno di Assiria” che aveva semplicemente cambiato capitale. Inoltre, le fonti babilonesi tacciono del tutto riguardo all’esistenza stessa dei giardini, mentre le fonti assire testimoniano di importanti lavori idrici a Ninive sotto Sennacherib (668-631 a.C.) nonché della presenza di giardini presso le rive del Khors.

I presunti Giardini Pensili, in una foto del 1950

Babilonia era circondata da una doppia cinta di mura, interrotta dalla porta di Ishtar, attraverso la quale passava la strada principale di accesso alla città, larga 22 mt. e rivestita da mattonelle smaltate azzurre ed ornata con oltre 120 statue di leoni con le fauci spalancate e dipinti di bianco, rosso e giallo; sopra la porta sono state trovate, dall’archeologo Robert Koldewey, le strutture a volta che costituivano la base di sostegno dei sovrastanti giardini soprelevati e terrazzati.

Considerando che all’epoca l’utilizzo del terreno con colture diverse da quelle agricole era sicuramente non usuale, la progettazione dei giardini fu un’operazione culturale di largo respiro; fu creato un orto botanico con tipi di flora non originari della zona, ed abituati a climi più umidi; per irrigare i giardini con la frequenza e la quantità di acqua necessaria, fu costruito un complesso sistema idraulico che, tra l’altro, doveva sollevare l’acqua dal fiume. I terrazzamenti per ricavare i giardini furono costruiti interamente in pietra e vengono citati anche da Erodoto.

L’impianto di irrigazione fu per la prima volta oggetto di studio da parte di D.W.W. Stevenson che, basandosi esclusivamente sulla descrizione degli autori classici, ipotizzò che il sistema adottato fosse quello detto ‘norias’, metodo di cui si trovano tracce in Oriente già a partire dal XIV secolo a.C. Nel caso dei giardini di Babilonia, esso doveva essere applicato in questo modo: alla base della scalinata dei giardini vi erano due grandi bacini che ricevevano acqua dall’Eufrate a mezzo di condutture sotterranee. Ai bacini erano connesse delle ruote che recavano, all’interno del bordo, secchi di legno o vasi d’argilla. quando le ruote venivano azionate dalla forza umana, questi ultimi si riempivano per poi lasciar ricadere l’acqua in un collettore sito al piano superiore, dove avveniva lo stesso procedimento, fino a raggiungere il livello più alto. Qui si trovava una cisterna da cui l’acqua poteva facilmente essere ridistribuita, attraverso condotti a caduta, a tutta la superficie dei giardini, sia a scopi irrigui che con funzione ornamentale.

Il Colosso di Rodi

Il Colosso di Rodi era un’enorme statua del dio Helios, situata nel porto di Rodi in Grecia nel III secolo a.C.

Nel 305 a.C. il generale Demetrio, figlio di un successore di Alessandro Magno, invase Rodi con un’armata di 40000 uomini. La città di Rodi era ben difesa e Demetrio costruì delle enormi catapulte montate sulle navi, per distruggere le mura della città. Dopo che una tempesta gli distrusse le navi, fu costretto a costruire una torre d’assedio ancora più grande delle precedenti catapulte: i rodiesi allagarono il terreno prospiciente le mura, impedendo alla torre d’ assedio di muoversi e rendendola inoffensiva. L’assedio fu sciolto nel 304 a.C., quando il generale Politemo arrivò con una flotta in difesa della città e Demetrio dovette ripiegare abbandonando la maggior parte dell’equipaggiamento.

Per celebrare la loro vittoria, i rodiesi decisero di costruire una gigantesca statua in onore di Helios, il loro dio protettore. La costruzione fu affidata a Caletus che aveva già costruito statue di ragguardevoli dimensioni. Il suo maestro Lisippo aveva costruito una statua di Zeus nella antica agorà di Taranto ritenuta per la sua altezza pari a 40 cubiti (18 metri).

La statua del Colosso fu concepita di 32 metri di altezza. Secondo l’opinione di alcuni storici, la struttura era costituita da colonne di pietra con delle putrelle di ferro inserite al suo interno, a cui venivano agganciate le piastre di bronzo del rivestimento esterno. Per costruire la statua, gli operai fusero il bronzo delle molte macchine da guerra che Demetrio si era lasciato alle spalle per costruire le piastre bronzee della pelle, ovvero l’esterno della figura. La base, alta 15 mt., fu costruita in marmo bianco ed i piedi e le caviglie della statua furono fissati per primi. La struttura venne eretta gradualmente man mano che la forma bronzea veniva fortificata con una struttura in pietra e in ferro e la grande torre d’assalto di Demetrio si trasformo’ nell’armatura per il progetto. Per raggiungere le parti più alte, venne inoltre costruita una rampa che da terra girava intorno a tutta la statua e che successivamente venne rimossa.

La costruzione terminò nel 282 a.C., dopo 12 anni. La statua restò in piedi per 56 anni, fino a che Rodi fu colpita da un terremoto nel 226 a.C., che fece crollare la statua nel mare. Politemo si offrì di ricostruirla, ma i rodiesi rifiutarono temendo l’ira del dio Helios a seguito della ricostruzione (che veniva interpretata come un’offesa nei riguardi del dio). La statua pertanto rimase sdraiata sul fondo per 800 anni ed anche così era talmente impressionante che molti andavano comunque a Rodi per ammirarla.

Tuttavia, nel 654, quando Rodi fu conquistata dagli arabi, questi ultimi portarono via la statua tagliandola in un numero imprecisato di blocchi e rivendendoli ad un Ebreo della Siria. Si dice che furono necessari 900 cammelli per trasportarne i frammenti a destinazione.

Secondo alcune ricostruzioni tradizionali, il Colosso di Rodi doveva raffigurare il dio Helios con le gambe divaricate ed i piedi poggiati alle estremità del Porto di Mandraki (dove ora sono presenti le due colonne su cui poggiano dei cervi in bronzo) ed essere alto al punto da permettere il transito delle navi all’interno del porto; infatti si dice che fungesse anche da faro. Questa immagine tradizionale rispecchia una teoria ormai superata, dato che per garantire il passaggio delle navi le dimensioni della statua (32 metri di altezza) sarebbero state chiaramente insufficienti.

Il Mausoleo di Alicarnasso

Il mausoleo di Alicarnasso è la monumentale tomba che Artemisia fece costruire per il marito fratello Mausolo, satrapo della Caria, ad Alicarnasso (l’attuale Bodrum, in Turchia) intorno al 350 a.C.

Nonostante ci sia chi afferma che la tomba fu costruita nell’arco di un bienno (ossia tra il 353 a.C. ed il 351 a.C.), è evidente che essa aveva proporzioni troppo vaste perchè in così poco tempo se ne fosse potuto ideare il progetto e completare la costruzione; è più probabile che ciò sia avvenuto mentre Mausolo era ancora in vita, nel 370-365 a.C., e che l’esecuzione terminasse intorno al 350 a.C., poco dopo la morte di Artemisia.

La bellezza dell’architettura della tomba, unitamente alla decorazione scultorea, la fecero qualificare fra Le sette meraviglie del mondo antico. Donde si passò a denominare col nome di mausoleo qualsiasi tomba monumentale (mausoleo di Augusto, mausoleo di Adriano).

Vi lavorarono artisti come Prassitele, Briassi, Leochares, Timoteo e Skopas (quest’ultimo, di Paros). Oggi sono visibili solo alcune rovine. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, ci ha lasciato una descrizione delle dimensioni dell’edificio:

« … i lati sud e nord hanno una lunghezza di 63 piedi; sulle fronti è più corto. Il perimetro completo è di 440 piedi; in altezza arriva a 25 cubiti ed è circondato da 36 colonne; il perimetro del colonnato è chiamato pteron […].
Skopas scolpì il lato est, Bryaxis il lato nord, Timotheos il lato sud e Leochares quello ovest ma, prima che completassero l’opera, la regina morì. Essi non lasciarono il lavoro comunque, finché non fu completato, decisero che sarebbe stato un monumento sia per la loro gloria sia per quella della loro arte ed anche oggi essi competono gli uni con gli altri. Vi lavorò anche un quinto artista.
Sullo pteron si innalza una piramide alta quanto la parte bassa dell’edificio che ha 24 scalini e si assottiglia progressivamente fino alla punta: in cima c’è una quadriga di marmo scolpita da Piti. Se si comprende anche questo l’insieme raggiunge l’altezza di 140 piedi … »

Tale era la magnificenza e l’imponenza della tomba di Mausolo, che il termine mausoleo venne poi usato per indicare tutte le grandi tombe monumentali.

La tomba di Mausolo, secondo la ricostruzione del Krischen, presentava un grande basamento di 22 metri di altezza, circondato inferiormente da una zoccolatura degradante, sopra la quale si innalzava un colonnato ionico di nove colonne per undici, di circa tredici metri di altezza; sopra questo si trovava una piramide a gradini di 7 metri ed infine la quadriga. Il tutto raggiungeva un’altezza di 49 metri.

In questa ricostruzione tutto l’insieme sarebbe stato legato da un sistema di misure molto semplice basato sul multiplo del piede e del cubito sami, congiunti dal rapporto di due o tre multipli per due e per potenze di due, secondo regole costanti dell’architettura greca.

La ricostruzione di Krischen fu, fra le molte, la più semplice ed attendibile. Essa si accorda con le misure delle fondamenta e con quelle di parti architettoniche rinvenute dall’archeologo inglese Newton negli scavi del 1856. Vanno altresì ricordati numerosi frammenti di fregio, rappresentante la Amazzonomachia; sembra che questi rilievi ornassero l’esterno della cella e che, secondo la tradizione tramandataci da Plinio, fossero stati affidati ai maestri maggiori del tempo. A Scopas il lato orientale, a Leocore il lato opposto e gli altri due a Briosside e Timoteo. La facciata e l’intero complesso dell’edificio erano opera di due architetti: Potino e Pitide. Sembra che nel XII sec. il monumento esistesse ancora: più tardi, nel 1402, il monumento servì da cava di marmi, ed infine fu distrutto dai Crociati.

Alcuni resti del Mausoleo, soprattutto i resti dei cavalli e della quadriga che vi era alla sua sommità, sono conservati e visibili al British Museum di Londra, dove vi è anche un’impressionante spiegazione della proporzioni dell’opera, partendo dalle dimensioni (già di per sé notevoli) dei resti dei cavalli lì esposti.

Il Tempio di Artemide

Il Tempio di Artemide (in greco antico: Ἀρτεμίσιον [Artemision], in latino: Artemisium) era un tempio dedicato alla dea Artemide, situato nella città di Efeso, nell’attuale Turchia, a circa 50 km dalla città di Smirne.

Prima degli scavi archeologici condotti nel 1987 ad opera dell’Università di Vienna si riteneva che la struttura, nel suo complesso, dovesse risalire al 560 a.C., cioè all’epoca di reggenza della dinastia achemenide dell’impero persiano. Al giorno d’oggi nulla rimane, se non qualche minimo resto, del grande tempio che, per le sue immense dimensioni e la bellissima architettura, fu considerata una delle sette meraviglie del mondo antico.

In effetti, la forma dell’edificio più nota è da attribuire all’iniziativa del re Creso di Lidia, e fu menzionata per la prima volta da Antipatro di Sidone che stilando la lista delle meraviglie del mondo antico ne decantava la bellezza e, paragonandolo agli altri monumenti, sosteneva che essi non ne reggessero il confronto.

In realtà, il tempio creseide andò a collocarsi su strutture architettoniche precedenti, che gli archeologi hanno studiato assiduamente per decenni. In particolare, l’edificio più antico dovrebbe coincidere con un periptero risalente all’VIII secolo a.C., mentre la base centrale del tempio fu appunto edificata solo in un secondo momento dall’architetto Chersifrone, per ordine di Creso, alla metà del VI secolo a.C.

La fama del tempio nella antichità era legata al diritto di asilo che questo elargiva e crebbe molto per i racconti legati a personaggi illustri e alla vita religiosa della città. Fin dai tempi più remoti il denaro necessario al sostentamento del tempio veniva procurato dai pellegrini, dai mercanti che affollavano il tempio e dai sacerdoti che vendevano le carni usate per i sacrifici.

Gli scavi nel santuario sono oggi ancora in corso, per il momento si ritiene che nel VII secolo il santuario consistesse in una struttura simile ad un altare che cambiò varie volte e di due altri monumenti: l’Hekatompedon, così detto perchè misurava 100 piedi e l’altare a rampa. Tutto ciò fu ricoperto con la costruzione del tempio “D” e quella del cortile dell’altare. Il tempio “D” aveva otto colonne sulla facciata e, pare, nove sul retro; non doveva essere ipetro, sebbene alcuni studiosi sostengono che il tempio fosse aperto alla pioggia, perchè nella zona della cella fu trovato un tubo che serviva per eliminare l’acqua. In seguito si pensò che la copertura fosse tronca e limitata al colonnato, cioè che la parte centrale fosse scoperta. L’accesso alla terrazza alta del santuario avveniva per mezzo di scalini di marmo costruiti attorno all’edificio come una gigantesca cornice.

L’alto basamento era largo 7,85 m e lungo 131 m. Plinio racconta che le colonne erano alte 20 m, snelle ed elegantemente scanalate (stile ionico); bellissimi capitelli sostenevano le travi tanto grosse da far sorgere una leggenda che parla di un intervento della stessa dea per aiutare l’architetto ad erigerle: questi infatti scoraggiato dalla difficoltà dell’impresa meditava il suicidio.

Il fregio non aveva figure ma solo una grossa dentellatura sulla cimasa più alta che sorreggeva il timpano. Quest’ultimo aveva tre aperture o finestre: quella centrale fornita di sportelli e al suo fianco si ergevano due statue di amazzoni. Plinio parla nel complesso di 127 colonne. La cella si trovava esattamente al centro dell’edificio; non si è sicuri del fatto che la statua della dea dominasse la cella, ma possiamo immaginare che la grandezza della statua fosse quella delle copie di epoca romana. La strana statua delle molte mammelle dell’Artemide Efesia rappresenta una dea madre. La statua è rigida, la parte bassa assomiglia al sarcofago di una mummia egizia.

Gli elementi decorativi come cervi, leoni, grifoni, sfingi, sirene e api sono originari dell’Est. Le statue avevano molta importanza in questo complesso: infatti, di tutte le competizioni svoltesi fra i greci, quelle di scultura che si tennero nel V secolo per abbellire il tempio furono uniche sotto molti punti di vista. Gli scultori delle statue di bronzo delle amazzoni, qui però mostrate in atteggiamento di supplici che implorano rifugio nel tempio, furono invitati ad esporle in pubblico e le quattro giudicate migliori (erano quelle di Fidia, Policleto, Cresila e Fradmone) furono scelte per decorare il tempio “D”; la celebrazione della pace di Callia del 450 a.C. fu l’occasione per questo avvenimento.

L’altare non si trovava in linea retta rispetto al centro della facciata, ma il sacerdote poteva scorgere le parti alte del tempio dove avveniva “l’apparizione” della dea dalla finestra centrale del tempio. Per stabilire quale fosse l’immagine di culto in epoca arcaica è importante notare che il tempio “E” è volutamente simile nelle linee e nei particolari al tempio “D”.

Nel più basso livello degli scavi, in quello che è chiamato “deposito della fondazione”, databile intorno al 600 a.C., furono trovate statuette d’oro, di legno, d’avorio, d’argilla, alcune erano raffigurazioni di Artemide come dea cacciatrice con l’arco o dea dell’Ade con una torcia; le più piccole figure arcaiche del VI secolo mostrano i diversi aspetti della dea. Senofonte narra di aver visto nel tempio una statua arcaica della stessa forma di quelle trovate negli scavi.

Queste statue mostrano un miscuglio di forme orientali, lidie, persiane, ittite ed egizie. Una parte importante per la ricostruzione del tempio è rappresentata dalle monete che recano la sua immagine: nelle fondamenta del tempio “D” sono state trovate 87 delle più antiche monete conosciute. Per ricostruire la facciata del santuario si utilizzò una sola moneta e non ci si rese conto che sulla moneta era stata operata una sintesi del numero esatto delle colonne (8), come risulta da altre monete.

Venne distrutto da un incendio doloso nel 356 a.C. ad opera di Erostrato, un pastore che motivò il suo gesto deliberato con la sola intenzione di “passare alla storia”.

La leggenda afferma che Artemide stessa non abbia protetto il suo tempio in quanto era troppo impegnata a sorvegliare la nascita di Alessandro Magno, che ebbe luogo nella stessa notte.

Il grande tempio di Artemide fu ricostruito ma poi fu nuovamente distrutto, stavolta dai Goti, nel 262, al tempo dell’imperatore Gallieno. Ricostruito ancora una volta dagli efesini, fu chiuso nel 391 a seguito dell’editto di Teodosio, che vietava i culti pagani. Nel 401 venne alfine distrutto dai Cristiani guidati da San Giovanni Crisostomo.

Il sito del tempio fu riscoperto nel 1869 da una spedizione sponsorizzata dal British Museum (guidata da John Turtle Wood), assieme a numerosi reperti e sculture provenienti dal tempio ricostruito, anche se oggi la perduta meraviglia del mondo non è più visibile.

Il Faro di Alessandria d’Egitto

È una delle realizzazioni più avanzate ed efficaci della tecnologia ellenistica e fu costruito sull’isola di Pharos, di fronte al porto di Alessandria d’Egitto, negli anni tra il 300 a.C. e il 280 a.C.; rimase funzionante fino al XIV secolo, quando venne distrutto da due terremoti.

Si deve la sua costruzione a Sostrato di Cnido, un mercante greco; il progetto fu iniziato da Tolomeo I Sotere, all’inizio del proprio regno, e venne completato dal figlio Tolomeo II Filadelfo. Lo scopo dell’imponente opera era aumentare la sicurezza del traffico marittimo in entrata ed in uscita, reso pericoloso dai numerosi banchi di sabbia nel tratto di mare prospiciente il porto di Alessandria e dall’assenza di rilievi orografici. Esso consentiva di segnalare la posizione del porto alle navi, di giorno mediante degli speciali specchi di bronzo lucidato che riflettevano la luce del sole fino al largo, mentre di notte venivano accesi dei fuochi.

Il Faro fu consacrato a favore dei navigatori agli dei salvatori (“teois soteroi uper ton laixomenon”, come diceva l’epigrafe dedicatoria, che poteva facilmente essere scorta da chiunque entrasse o uscisse dal porto), nei quali si devono probabilmente riconoscere – piuttosto che Tolomeo I e Berenice – i Dioscuri, Castore e Polluce, divinità della luce. Si stima che la torre fosse alta 134 metri, una delle più alte costruzioni esistenti per l’epoca, e il faro, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, poteva essere visto a 48 km di distanza, cioè fino al limite consentito dalla sua altezza e dalla curvatura della superficie terrestre. Era costituita da un alto basamento quadrangolare, che ospitava le stanze degli addetti e le rampe per il trasporto del combustibile. A questo si sovrapponeva una torre ottagonale e quindi una costruzione cilindrica sormontata da una statua di Zeus o Poseidone, più tardi sostituita da quella di Helios.

La costruzione del faro di Alessandria si rivelò di grande utilità e indusse a costruire analoghi fari in vari altri porti del mar Mediterraneo ellenistico. Non si hanno descrizioni esatte del suo funzionamento, probabilmente a causa della riservatezza che, come spesso in seguito, nel mondo ellenistico era mantenuta sugli impianti di tecnologia avanzata. Si può comunque supporre che il fascio luminoso del faro venisse rafforzato dall’uso di specchi parabolici, tecnica tipicamente applicata nell’era moderna: le conoscenze matematiche su cui si basano questi apparati riguardano la teoria delle coniche e la catottrica ben nota negli ambienti scientifici di Alessandria (Apollonio, Euclide).

Inoltre, la forma cilindrica del contenitore della sorgente di luce induce a pensare che dal faro provenisse un fascio di luce girevole, più utile per i naviganti di una sorgente fissa. Nei secoli successivi queste tecnologie andarono perdute, come gran parte della cultura scientifico-tecnologica ellenistica. Si riprese a costruire dei fari solo nel XII secolo (la prima Lanterna di Genova è realizzata nel 1128 o nel 1139), ma senza riflettori basati sulla teoria delle coniche. Questi verranno recuperati solo nei primi decenni del XVII secolo, in particolare da Bonaventura Cavalieri, e consentiranno la costruzione dei primi fari moderni alla fine del secolo.

Descrizioni del Faro ricorrono negli scritti di vari autori classici all’inizio dell’era cristiana, soprattutto in Diodoro Siculo, in Strabone e in Plinio il Vecchio, il quale ci dice che la torre costò 800 talenti cioè circa 5 miliardi e 200 milioni di lire. Del pari all’oscuro siamo circa la sua organizzazione e amministrazione nell’età tolemaica, sebbene sia indubbio che aveva una grande importanza per la vita economica della città.

Alla guardia e alla manutenzione del faro, nell’età romana, furono preposti liberti imperiali. Il sistema d’illuminazione consisteva nell’accendere fuochi di legno resinoso e grandi torce, oppure nel bruciare oli minerali in vasti recipienti. La potenzialità ed efficacia della luce, che gli antichi considerarono stupefacenti, tanta era la distanza a cui veniva proiettata, erano accresciute ad intermittenza da enormi specchi concavi di metallo, i quali sarebbero stati espressamente inventati da Archimede.

È noto infatti che nel primo Medio Evo il Faro trasmetteva alla città di Alessandria messaggi eliografici dalle navi in arrivo. La torre sorgeva all’ingresso del “megas limen”, sopra un isolotto riunito alla punta nord-est dell’isola di Pharos, proprio nel luogo attualmente occupato dal rovinato forte Qait Bey (1477-1479) che ne copre le fondazioni e le ultime vestigia.

Secondo testimonianze storiche, essa era un vero e proprio colosso – alta quanto un edificio di 45 piani – e composta da tre piani distinti, sempre più stretti. Il primo, alto 60 metri, aveva una pianta quadrata ed era molto largo. Il secondo era alto 30 metri e, sempre stando a racconti e scritti di epoca antica, ricordava molto una torre a sezione ottagonale. L’ultimo pezzo, di 15 metri, invece era costituito da una vera e propria torre cilindrica sormontata da un’enorme statua, forse quella di Alessandro il Grande o quella di Zeus Soter.

L’ingresso al monumento non era al livello del suolo, ma un pò rialzato, al termine di una rampa di scalini. Si sa che il Faro attraversò diverse epoche storiche senza grossi traumi e poco dopo l’anno 1000 era ancora in piedi. Ma, in seguito, gli occupanti musulmani distrussero il terzo piano, sostituendolo con una piccola moschea. Nei tempi che seguirono il Faro cadde in rovina, fino a trasformarsi in una vera e propria “cava di pietre” per la realizzazione del forte, già citato, che si erge ancora. Sul Faro di Alessandria si modellarono le altre torri consimili, innalzate in età ellenistica e romana, in vari punti del Mediterraneo: esse ebbero in generale un’altezza minore, furono suddivise in un numero maggiore o minore di piani, ma il tipo rimane sempre il medesimo.

L’ultima possibile raffigurazione del Faro prima della sua distruzione la troviamo in un mosaico della volta della cappella di San Zeno in S. Marco a Venezia, databile intorno al 1200. Mostra il Faro e una nave con l’Evangelista al timone, mentre arriva ad Alessandria per fondare la chiesa copto-cristiana in Egitto. Ad Alessandria, la memoria del Faro è mantenuta viva da una scultura moderna in marmo bianco che lo riproduce insieme a Iside Faria, e accoglie i turisti che entrano nei giardini per visitare le catacombe di Kom-es-Shafur.

Dei suoi pochi resti, diversi blocchi ed elementi architettonici sono stati recuperati in mare, insieme alle colossali statue di Tolomeo II e della moglie Arsinoe II rappresentata come Iside.

La statua di Zeus

La Statua di Zeus a Olimpia era una colossale scultura collocata nel Tempio di Zeus. A completamento del grande tempio, la cui costruzione fu ultimata verso il 456 a.C., fu chiamato ad Olimpia intorno al 436 a.C. lo scultore Fidia, il più famoso di Grecia, che in quel periodo era in esilio volontario da Atene, dove aveva realizzato una famosa statua di Atena, anch’essa colossale. Fidia operò probabilmente con numerosi aiuti e completò l’opera intorno al 433 a.C., visto che l’anno seguente tornò ad Atene.

La statua rimase nel santuario per oltre ottocento anni sempre suscitando stupore e meraviglia nei fedeli. L’imperatore romano Caligola (37-41 d.C.), secondo Svetonio, cercò inutilmente di impossessarsi della statua con ogni mezzo per portarla a Roma.

All’inizio del V secolo, quando il santuario era ormai in abbandono, entrò a far parte della collezione di opere d’arte pagane di Lauso, che la pose nel proprio palazzo a Costantinopoli, che andò distrutto assieme alla collezione nell’incendio nel 475.

Della statua, nonostante l’enorme fortuna che ebbe nel mondo antico, non rimangono copie, a parte la sommaria effigie riprodotta sulle monete del V secolo della città di Elide, vicina a Olimpia.

Al contrario l’opera d’arte risulta ampiamente e dettagliatamente descritta dagli scrittori del mondo greco e latino, che crearono attorno ad essa una ricca aneddotica. Anche le dimensioni della statua sono state ricostruite sulla base delle numerose descrizioni provenienti dagli autori classici.

Lo storico e geografo Strabone, ad esempio, riporta un episodio (Geografia, libro VIII 3, 30) secondo cui lo stesso Fidia avrebbe detto a Paneno di aver tratto ispirazione per la scultura del suo Zeus da alcuni versi dell’Iliade: “Disse, e con le nere sopracciglia il Cronide accennò; le chiome ambrosie del sire si scompigliarono sul capo immortale: scosse tutto l’Olimpo”. (Omero, Iliade, I, 528-530).

Il basamento della statua crisoelefantina occupava un’area di più di sei metri per dieci, mentre il trono era alto circa quattordici metri con una spalliera diritta e culminante con figure di dei; i braccioli erano sostenuti da sfingi ed il dio indossava un peplo d’oro drappeggiato; i piedi poggiavano su uno sgabello lavorato, cesellato e posto su un leone lavorato a tutto tondo; i calzari erano cesellati con lavori di scene di guerre; nella mano destra, Zeus reggeva una vittoria, che si dice fosse d’oro e misurasse due metri. Nella parte più alta del trono – ed a maggiore altezza del capo della statua – Fidia inserì, da una parte le Carìti, e dall’altra le Ore, le una e le altre in numero di tre.

L’impressione di monumentalità data dalla statua doveva essere accentuata dalla non troppo felice proporzione delle dimensioni tra essa e la struttura in cui era collocata: pur essendo il tempio di dimensioni considerevoli, la testa di Zeus, rappresentato seduto in trono, ne sfiorava il soffitto, tanto che Strabone ebbe a scrivere che, se il dio si fosse alzato in piedi, avrebbe scoperchiato il tempio. (Strabone, Geografia VIII 3, 30).

Un’esauriente descrizione ci viene dalle pagine di Pausania (Periegesi V, 10, 2): Zeus reggeva nella mano destra una Nike (vittoria) d’oro e avorio, mentre nella sinistra teneva uno scettro su cui poggiava l’aquila d’oro, simbolo della divinità. Il dio indossava sandali e un mantello d’oro che recava immagini di gigli. Il trono era adorno in vario modo con oro, pietre, ebano e avorio.

Le parti scoperte della statua erano realizzate in avorio, mentre gli attributi erano in lamina d’oro. Il trono, crisoelefantino anch’esso e decorato con ebano e pietre preziose, recava in rilievo numerose rappresentazioni di ispirazione storica e mitologica, idealmente collegate alle decorazioni già presenti nel tempio. Le parti in legno furono probabilmente dipinte da Paneno.

La Piramide di Cheope

La Piramide di Cheope a Giza, anche detta Grande piramide, è l’unica delle sette meraviglie del mondo antico che sia giunta sino a noi, nonché la più grande piramide egizia e la più famosa piramide del mondo. È la più grande delle tre piramidi della necropoli di Giza, vicino al Cairo in Egitto. Costruita, si presume, intorno al 2570 a.C., è rimasta l’edificio più alto del mondo per circa 3800 anni.

Si presume sia stata eretta da Cheope (Khufu) – della IV dinastia – come monumento funebre. All’interno, come per molte altre sepolture reali dell’antico Egitto saccheggiate dai violatori di tombe già nell’antichità, non è stata trovata alcuna sepoltura e ciò ha fatto nascere un buon numero di teorie (fino ad oggi prive di reale fondamento) sul fatto che le piramidi non siano monumenti funebri. L’attribuzione della grande piramide a Cheope è deducibile dalla concordanza dei rilievi archeologici con i dati storici disponibili, costituiti dai libri dello storico greco Erodoto.

Queste le caratteristiche della Piramide: altezza totale iniziale = 146,61 mt.; altezza odierna = 136,86 mt.; lunghezza dei lati = circa 230 mt, per un’area complessiva di 53.075 mq.; numero dei blocchi di pietra = 2300000. In origine, inoltre, essa era ricoperta su tutte e quattro le facciate da 115000 pietre lucidissime, ciascuna del peso di diverse tonnellate: dopo essere stata staccata da un violento terremoto, la maggior parte dei blocchi di rivestimento fu rimossa per la costruzione del Cairo.

La data probabile del suo completamento è il 2570 a.C. È la più antica delle tre grandi piramidi nella necropoli di Giza, alla periferia del Cairo, in Egitto.

Poche centinaia di metri a sud-ovest dalla Piramide di Cheope sorge la piramide attribuita al suo successore Chefren, che costruì anche la Sfinge. Ancora a poche centinaia di metri a sud-ovest è la piramide di Micerino, successore di Chefren, alta circa la metà delle due maggiori. La piramide di Chefren appare più alta in alcune foto, ma solo perché è costruita su un terreno più elevato.

La base della piramide copre oltre 5 ettari di superficie, formando un quadrato di circa 230,34 metri per lato. L’accuratezza dell’opera è tale che i quattro lati della base presentano un errore medio di soli 1,52 cm in lunghezza e di 12″ di angolo rispetto ad un quadrato perfetto. I lati del quadrato sono allineati quasi perfettamente lungo le direzioni Nord-Sud ed Est-Ovest. I lati della piramide salgono ad un angolo di 51º 50′ 35″.

Il rapporto tra l’altezza e il lato della base quadrata della piramide di Cheope coincide, con buona approssimazione, alla Sectio Aurea che governa anche la stele del Re Get. Questa proporzione dell’armonia, o numero aureo Fi fu usata da Fidia per progettare il Partenone dell’Acropoli di Atene. Lo studioso Osvaldo Rea dimostra attraverso prove documentali che questa proporzione dell’armonia si riscontra anche nella visione aerea dell’intera Acropoli di Aletrium, nel Lazio, cosi come nelle proporzioni della Porta Maggiore e della Porta Minore dell’Acropoli.

Si osserva, inoltre, che il valore ottenuto dal rapporto tra il perimetro di base (circa 921,4 m) della piramide ed il doppio dell’altezza della stessa (circa 146,6 m * 2 = 293,2 m), approssima, con buona precisione, il valore del Pi Greco. Risulta sorprendente, infine, che la lunghezza del perimetro della piramide espresso in pollici sia all’incirca pari a 36524, ovvero cento volte il valore 365,24, corrispondente alla durata, espressa in giorni, dell’anno solare.

Per la costruzione del solo rivestimento esterno della Grande Piramide sono state scelte pietre di calcare, basalto e granito, pesanti ognuna dalle 2 alle 4 tonnellate, mentre la parte interna, denominata Zed è costituita di monoliti in granito pesanti dalle 20 alle 80 tonnellate, per un peso totale che si aggira intorno ai 7 milioni di tonnellate. Il volume totale è di circa 2600000 mc. È quindi la più voluminosa piramide d’Egitto (ma non del mondo, dato che la piramide di Cholula, in Messico, è più grande).

Nell’epoca immediatamente successiva alla costruzione, la piramide era rivestita esternamente di bianche pietre di calcare, lucide e molto lisce, incise con antichi caratteri, precipitate al suolo a causa di un violento terremoto nel 1301 a.C.; la maggior parte dei blocchi di rivestimento fu rimossa per la costruzione di El Kaherah (Il Cairo), inoltre il pyramidion d’oro, che era situato sulla sommità, sotto i raggi del sole doveva risplendere come una gemma gigantesca. Complessivamente, nella costruzione sono stati utilizzati circa centomila uomini che hanno lavorato per circa venti anni.

La piramide di Cheope si distingue dalle altre per la sua posizione geografica, ma anche per il grande numero di passaggi e alloggiamenti, per la rifinitura dei lavori interni e la precisione di costruzione.

Fonti

Wikipedia
Rhodian, in the Island
Popoli antichi
AlterPensiero, il Blog del Pensiero Alternativo
WikiMedia Commons
– Lucio RussoLa rivoluzione dimenticata (Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna), Sez. 4.5, Feltrinelli, 1996
– F. Barello, Archeologia della moneta, pp. 48-50, Carocci, Roma, 2006
– Peter A. Clayton e Martin J. Price, Le Sette Meraviglie del Mondo, pag.68-72, Einaudi, 1989
– James Grout, Encyclopaedia Romana, University of Chicago, 1997
Osvaldo ReaNautilus. L’enigma dell’impero, Ed. Rea (Arpino), 2004

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