Gardenio Granata, I ladri, Priapo e le Metamorfosi in Dante [Lectura Dantis, Inferno XXV]
«Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando «Togli, Dio, ch’a te le squadro!»
[Inf. XXV, 1-3]
L’incipit blasfemo ed empio, carico di oscenità, con cui il ladro Vanni Fucci apre Inferno XXV è tradizionalmente interpretato secondo modalità che lo riconducono tutto entro le coordinate di un tessuto plebleo sostanzialmente toscano e medievale: «le fiche erano un gesto osceno e volgare di scherno e derisione, consistente nel volgere contro qualcuno il pugno chiuso, tenendo il pollice tra l’indice e il medio» (così il commento di Pasquini e Quaglio).
Tra le fonti indicate da vari commentatori per attestare questa consuetudine, le cronache del Malispini e del Villani o lo stesso Statuto di Prato. Ma forse occorre vagliare anche un’altra fonte, di origine classica, che ci consente di aprire ulteriori spiragli sia sulle conoscenze dei testi antichi da parte di Dante sia sulla latitudine effettiva del suo stesso apprendistato «plebeo», goliardico e giullaresco. Alludo ai “Carmina priapea”, per leggere i quali, fra l’altro, possiamo giovarci di una ottima edizione con traduzione a fronte, curata da E. Sella con prefazione di P. Fedeli, Torino, 1992.
Oggetto di culto antichissimo, il dio Priapo adunava in sé varie funzioni: una sicuramente di simbolo della forza fecondatrice della natura, vero e proprio propiziatore di buoni raccolti. L’altra, ugualmente importante, era quella di “custos” che deve difendere dai ladri e dagli animali nocivi i prodotti della terra e degli alberi; ma, mentre gli animali scapperanno alla vista della statua, i ladri verranno minacciati di infamanti pene corporali e di sicura violenza ad opera del suo fallo che non perdona. Priapo quindi era il nemico per eccellenza dei ladri, era il dio inviso ai ladri: non a caso molti versi greci e latini dedicati a Priapo hanno al centro proprio questa contesa fra Priapo e i ladri.
Non dimentichiamo, inoltre, che a Roma i priapei furono praticati dai maggiori poeti latini, da Catullo e Virgilio a Orazio e Tibullo. A Virgilio, l’auctor caro per eccellenza a Dante, la tradizione attribuisce tre priapei, che vengono collocati nell’“Appendix” ma di cui la critica più recente non è poi così restia a cogliere una possibile matrice effettivamente virgiliana. L’autore della più famosa silloge di Carmina priapea non ci è invece noto: a lungo, fin dal Cinquecento, si pensò a una raccolta di testi di più mani. Oggi si pensa ad un autore unico per gli ottanta carmi, forse contemporaneo di Marziale. Questi “Carmina” conobbero una fortuna ininterrotta nel mondo antico e, quel che più conta, nell’epoca medievale: diffusi in vari periodi e contesti e con particolare vivacità lungo la cosiddetta “fioritura naturalistica” del XII secolo, essi continuarono ad accompagnare e informare per secoli la cultura laica e classicheggiante di comuni, università, corti, percorrendo, sul labile confine della “clandestinità”, i tragitti di studenti, giullari, menestrelli.
Del resto, la stessa permanenza, nelle campagne medievali, di antichissimi sostrati e cerimoniali connessi ai cicli pagani della fecondità della terra e dei raccolti favorì la costante attualità del richiamo “priapeo” anche sul versante colto e letterario dei “cittadini” o degli “inurbati”. E qui veniamo al punto che ci preme: è più che probabile infatti che Dante, specie negli anni dell’apprendistato giovanile e universitario specie bolognese, venisse a contatto con i Carmina. L’Inferno, del resto, in più di un luogo, mostra, com’è a tutti noto, questa contiguità di Dante con molteplici aspetti della dimensione carnevalesca, scurrile, naturalistica della quotidianità medievale e dei testi stessi che vi inerivano.
Non sarà, quindi, casuale che, trattando dei ladri, Dante finisca col ritrascrivere a modo suo, sì, consuetudini e gestualità ben radicate nella Toscana del suo tempo ma anche clausole blasfeme e scabrose già presenti nella cultura classica e ben attestate nei “Carmina priapea” proprio a proposito del nesso «ladro-divinità». Basti un esempio, o «spia», per tutti, e si guardi all’incipit del LVI dei “Carmina” (ed. cit.): «Derides quoque, fur, et impudicum / ostendis digitum mihi minanti?[…] («Mi prendi in giro, ladro, e l’impudico dito tu mostri a me mentre minaccio? […]). I primi due versi sono significativi: Si badi a come il commentatore delucidi il verso: «Il dito medio che, drizzato a mo’ di membro virile tra l’indice e l’anulare della mano serrata a pugno, vale da segno di oltraggio».
Siamo forse di fronte a qualcosa di più che un semplice «indizio»: sembra proprio che Dante, in un canto centrale per la trattazione dei ladri, scolpisca con particolare forza espressiva l’incipit rimodulando in chiave “toscana” l’antico oltraggio fallico dei ladri al dio Priapo. Senza voler nulla togliere alle ipotesi già consolidate circa la matrice di questi versi danteschi, appare – credo – molto interessante aggiungere anche quella di un Dante che conosce e frequenta i “Carmina priapea”: come già accennavamo, si dilata così ulteriormente lo spettro di suggestioni cui probabilmente attinse Dante per i suoi umori umili, terragni, sarcastici, quali dominano in Malebolge e che lo spingono fino a testi dell’antichità.
Non va dimenticato, fra l’altro, che in tutti i “Carmina priapea” la punizione dei ladri da parte del dio non solo è vivacemente annunziata ma spesso fulmineamente inflitta (nei modi più osceni e degradanti, naturalmente): similmente accade a Vanni Fucci, non appena ha esibito il suo blasfemo gesto di sfida. Infine i “Carmina priapea” rappresentano un ricco repertorio di imprecazioni e di salacissimi scambi di invettive, la cui topica può, in modi indiretti, essersi insinuata, accanto a tante altre suggestioni, nei versi di “invectiva” così frequenti e dirompenti nella Commedia e i cui esiti ancora verifichiamo in certi testi del Petrarca (dai «sonetti avignonesi» alle “Sine nomine”, ad esempio). Insomma la bipolarità di un Dante legato ai classici quando è “paludato”, legato a pratiche della cultura medievale di piazza quando è “plebeo” non tiene del tutto, se è vero che anche un testo come quello dei “Priapea” si fa largo nel tessuto della Commedia a scompaginare schemi troppo semplificati.
Dante ha piena consapevolezza della complessità della tradizione classica e degli stessi estremi entro cui essa si era andata dipanando, e in tutta la sua complessità egli sa farla propria: non a caso Inferno XXV, che si apre con una così efficace ripresa di antiche clausole blasfeme, dando estro e vigore ulteriori al “sermo humilis”, è anche il canto di «Taccia Lucano» e «Taccia Ovidio», ovvero il canto in cui Dante con forza pone sul tappeto la piena legittimità della sua operazione poetica fino alla consapevolezza di essersi potuto cimentare da vincente con l’insieme della poesia classica, dall’estremo umile e scurrile a quello più elevato: ed è come se, in XXVI, con Ulisse, quasi completasse ai livelli più alti del sublime poetico questa “sfida” che si era aperta con la sguaiata, pleblea, scurrile riscrittura dei moduli priapei nell’invettiva di Vanni Fucci.
Tutto ciò non casualmente si va esibendo in canti in cui l’eco delle metamorfosi è centrale: le “Metamorfosi” ovidiane sono fortemente spesso connesse infatti a potenti immagini fisiche e “corporee”, nell’intreccio e nel trasmutarsi tra umano, ferino, arboreo e terragno che le contraddistingue per grande parte. Dante che pure usa il suo amatissimo Ovidio come alimento “immaginativo” (secondo le stesse poetiche medievali di ascendenza averroistica) essenziale per figurarsi il “trasumanar” paradisiaco, il culmine di ogni possibile metamorfosi, molto oltre la tensione ovidiana, nell’Inferno dei ladri contamina invece metamorfosi e basso corporeo.
La sfida blasfema dell’irriducibile Vanni Fucci, maschera grottesca dell’altro grande altero, Farinata, non può non farci evocare che questa degradata umanità senza pentimento apre il varco a una serie memorabile, nella letteratura e non solo, di “malvagi” crudeli e sprezzanti in aperto dispregio del divino e delle leggi morali e culminante nella negazione al pentimento finale del Don Giovanni mozartiano. I serpenti che avvolgono e immobilizzano Vanni Fucci rendendolo come materia di inerte ferinità nella metamorfosi del degrado (controcanto grottesco del tragico Laocoonte omerico-virgiliano?) mostrano lo straordinario cimento di Dante sui testi classici in dialogo col suo testo: l’orditura priapea si feconda con le suggestioni metamorfiche ovidiane fino a costruire pagine di formidabile impatto emotivo intorno alla “materia” infernale.
Anche nell’Inferno, e proprio nel cimento col mondo antico, vi è in altre parole come un crescendo interno — tra XXV e XXVI — che dalla “priapea” gestualità quotidiana giunge, attraverso il modello ovidiano delle Metamorfosi, all’eroismo magnanimo e tragico di Ulisse, della “curiositas” eccezionale di una ragione naturale condotta fino all’estremo delle sue possibilità, forse allusione a quell’”intelletto possibile” di averroistica ascendenza che tanto aveva lacerato la filosofia e la teologia del tempo e sul cui discrimine si erano divaricati a un certo punto i percorsi umani non meno che culturali e religiosi di Dante e Cavalcanti. Insomma, il tema del rapporto della Commedia con la cultura classica, ai suoi vari livelli, è sempre aperto e non sono poche le sorprese che ancora può riservarci, a saperne ben scrutare il prezioso e ricchissimo ordito intertestuale.
Prof. Gardenio Granata
5 Febbraio 2021
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