Il malinteso frainteso: ‘excursus’ su Céline
Molto è stato scritto su Louis-Ferdinand Céline (pseudonimo di Louis-Ferdinand Auguste Destouches, 1894-1961) e ormai frequenti sono i saggi che trattano di questo straordinario romanziere francese che, per il suo stile e i suoi burrascosi trascorsi ideologici e politici, seppe spaccare in due il fronte della critica nazionale e internazionale, provocando infinite e violente polemiche, ma anche curiose convergenze di opinione. Basta dare un’occhiata alle più recenti biografie (come ad esempio quella, molto dettagliata e critica, di Philippe Alméras – Cèline – edita nel 1997 da Corbaccio) o alle ristampe in lingua francese di quelle vecchie che, soprattutto in questi ultimi anni, stanno tornando ad affollare le bancarelle delle librerie di mezza Europa per rendersi conto che, a distanza di quarant’anni dalla sua morte, Céline sembra essere definitivamente risorto dall’inferno, affrancandosi da una scomunica che è stata decretata ai suoi danni ben prima della sua scomparsa, cioè a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, quando l’autore, attraverso le sue scelte politiche, si fece alfiere di assurde teorie antisemite, abbracciando non soltanto la causa della Francia di Vichy, ma addirittura anche quella della Germania nazista.
Qui però occorre subito fermarsi e rammentare che in quel periodo in Francia non erano pochi a pensarla (o quasi) come Céline (anche scrittori della fama di Brasillach e di Rebatet non ebbero timore di dichiararsi ostili al giudaismo e alle cosiddette “plutocrazie” occidentali. Mentre intellettuali come François Mauriac, Jean Paul Sartre e perfino André Gide cercarono di instaurare con il nuovo regime di Vichy un rapporto di non belligeranza). Anche se, come tiene a puntualizzare Carlo Bo «negli anni Trenta, Céline vantava (forse più di ogni altro) un bel curriculum di antisemita, ma dopo il ’40 andò oltre imboccando un razzismo scientifico, quale a suo avviso neppure i nazisti osavano sperare… Non si può non continuare a chiederci come mai uno scrittore di quella forza e di quella novità si sia lasciato trascinare da uno spirito più che polemico, predicatore di morte e di rovine».
Antisemita viscerale, antidemocratico, filonazista, guerrafondaio? Céline fu davvero tutto ciò? Può l’autore di capolavori assoluti come Viaggio al termine della notte o Morte a credito avere messo al servizio di utopie malsane il proprio straordinario acume, la propria intelligenza e la propria sensibilità? Al punto da indurre alcuni suoi critici decifrare nei comportamenti e nelle scelte ideologiche dello scrittore una vena di pazzia alimentata da inconfessabili complessi e da fobie antropologiche?
O forse, e più semplicemente, le ragioni dei comportamenti e delle scelte dell’uomo e dell’artista Céline debbono essere analizzate in un preciso contesto storico, quello della Francia della prima metà del Novecento: una nazione in cui l’idea di patria e di identità di appartenenza etnico-culturale trovarono nel razzismo antisemita e nel totalitarismo nazionalsocialista propagandato dalla Germania di Hitler un utile alleato contro l’ondata della modernità e di progresso, legata ai concetti laici di tempo e produzione, caratteristici del liberalismo occidentale?
Giova infatti ricordare che le scelte politiche apparentemente folli di Céline non avevano nulla di strano. Esse traevano origine da istanze molto diffuse tra la popolazione francese, i cui strati sociali medio-bassi e proletari (ma anche parte delle élite borghesi e culturali) manifestavano già da tempo una forte contrarietà nei confronti del capitalismo e del giudaismo. L’affaire Dreyfuss aveva contribuito ad alimentare sia l’astio nei confronti degli ebrei che a fare sorgere una forma di xenofobia legata a psicosi da complotto internazionale.
Alla luce di questi fatti non risulta quindi strano che anche una personalità eccellente e colta come Céline potesse – magari attraverso meccanismi e ragionamenti più complessi e raffinati – arrivare a mostrare simpatia nei confronti di movimenti politici nazionalisti e di chiara matrice fascista che, all’inizio degli anni Quaranta avrebbero finito per fiancheggiare e addirittura sostenere le orride ipotesi di soluzione finale propagandate dal nemico numero uno della Francia, cioè dalla Germania di Hitler.
«Céline – commenta Bo circa la posizione dello scrittore francese nell’ambito di questo scenario – era un caso isolato di follia oppure nelle sue farneticazioni sapeva di potersi rivolgere a una famiglia totalmente diversa che, camuffandosi per ragioni politiche, obbediva a un altro credo politico, diverso da quello ufficiale? Gran parte della storia di Vichy e soprattutto di certe sue responsabilità sembra fatta apposta per rendere più chiaro il quadro delle ambiguità francesi».
Considerazioni a parte, oggi sappiamo, sulla base di documenti, che Céline collaborò effettivamente, anche se indirettamente (non fu mai un intellettuale veramente organico al Potere), con il governo di Vichy e con i nazisti, rivendicando a più riprese di avere compreso prima di altri il disastro che si preparava per il suo Paese corrotto dagli ebrei (vedi il pamphlet antisemita del 1938: L’école des cadavres) e dai capitalisti; invocando l’urgenza di una nuova alleanza franco-tedesca e auspicando uno scontro all’ultimo sangue contro le democrazie occidentali e il bolscevismo. Céline si augurava in buona sostanza la rigenerazione di una Francia depurata sotto il profilo razziale, saldamente agganciata alla tradizione nordica, e distaccata dal Sud meticcio e mediterraneo. Nonostante la gravità di questi proclami, dopo la fine della guerra Céline ebbe sempre la forza di sostenere che i suoi furono soltanto reati di opinione, dai quali egli non volle mai trarre alcun beneficio economico o sociale. Cercò anche di difendersi e di differenziarsi da altri collaborazionisti francesi, ricordando di avere sempre lavorato per il bene della patria e di avere contribuito a salvare dalla forca diversi oppositori del regime di Vichy. “Ci si accanisce – dichiarò Céline – a volermi considerare un massacratore di ebrei. Io sono un preservatore accanito di francesi e ariani, e contemporaneamente, del resto, di ebrei… Ho peccato credendo al pacifismo degli hitleriani, ma lì finisce il mio crimine”.
Céline sostenne, abbastanza ingenuamente, a sua discolpa di non essere mai comparso (al contrario di altri “collaborazionisti”) nel libro paga di giornali o movimenti filo-nazisti. Anche e soprattutto perché i vertici di Vichy e di Berlino trovarono sempre eccessivamente nichilista il suo pensiero e il suo modo di ragionare. Tra il 1940 e il 1944, in occasione di alcuni ricevimenti ufficiali ai quali partecipò, i convitati (gerarchi e militari) rimasero infatti scioccati, dalle premonizioni che prefiguravano inopportuni quanto reali scenari catastrofici e rese dei conti epocali nelle quali tutti, vincitori e vinti, sarebbero periti. Quelle visioni di morte e dissolvimento, evocate con la maestria di cui è capace soltanto chi è aduso a trasformare la realtà in suggestione, segnarono effettivamente un profondo solco tra gli esponenti del regime di Vichy e l’autore che iniziò ad essere giudicato da questi con molto sospetto. Cosa del tutto ovvia poiché se è vero che Céline condivideva talune teorie con i fascisti francesi e i nazisti, risultava altrettanto vero che un’artista visionario del suo spessore non potesse non ragionare a colpi di intuizioni ed immagini difficilmente decifrabili da uno zelante luogotenente della Milizia o da un meticoloso ufficiale delle SS.
Ci si troverebbe dunque di fronte ad un uomo (non parliamo dello scrittore che, in quanto artista dovrebbe essere giudicato esclusivamente per le opere) decisamente atipico, contraddittorio, animato e agitato da ideali politici discutibili. Come ha osservato Solinas, «Céline fu indubbiamente un collaboratore» del regime di Vichy, ma lo fu – aggiungiamo noi – a modo suo, in maniera paradossalmente autolesionista. Anche perché tutto quel suo cianciare irrazionale sull’antisemitismo gli costò molto, ma molto caro, soprattutto sotto il profilo professionale. Secondo Solinas, «fu anarchico e razzista, reazionario nel suo essere rivoluzionario, modernissimo eppure negatore del progresso, cane sciolto senza padroni che a forza d’abbaiare alla luna si trasformò in lupo, mostrò i denti, azzannò e alla fine da predatore si ritrovò preda, inseguito, braccato, preso e punito». Ma «non per questo domato».
Ma veniamo all’autore e alla sua opera. Come nasce Louis-Ferdinand Céline? Nasce nel 1894 a Courbevoie, sulla Senna, ma cresce a Parigi, dove la madre negoziante si trasferisce, mentre il padre continua a fare l’assicuratore nel paese d’origine. Louis è insomma di estrazione piccolo-borghese, con tracce pregresse di nobilato locale. Raggiunta l’adolescenza, Louis-Ferdinand sembra destinato a fare il commerciante, almeno così sperano i suoi familiari. Ed in effetti le sue prime esperienze di lavoro Louis le fa proprio in questo settore. Poco dopo avere compiuto il suo diciottesimo anno di età il ragazzo arriva alla svolta della sua vita. Nel 1914, viene arruolato nell’esercito francese e inviato al fronte contro i tedeschi. Nel corso di una battaglia, riporta gravi ferite a un braccio e viene congedato. Menomato, Céline ottiene come compenso un impiego a Londra presso l’Ufficio Francese d’Immigrazione. Nel 1916 gli viene affidato un incarico in una società commerciale di legname in Camerun. L’esperienza coloniale è comunque breve in quanto, avendo contratto una brutta forma di malaria, egli deve fare rientro in Francia. Nel 1915 aveva sposato a Londra la barista Suzanne Nebout, ma il matrimonio non essendo stato regolarmente registrato all’anagrafe francese risulta nullo. Louis approfitta dell’errore e nel 1919 porta sull’altare un’altra donna, Edith Follet, il cui padre medico instrada il giovane verso lo studio della medicina. Louis si appassiona alla materia, si applica con profitto a Rennes e nel 1924 si laurea all’Università di Parigi. Due anni più tardi si conclude rovinosamente il matrimonio con la Follet e Céline, che ora ricopre un incarico presso la Società delle Nazioni, accetta di girare il mondo, visitando la Svizzera, nuovamente il Camerun, gli Stati Uniti, Cuba e il Canada.
Nel 1931 è di nuovo in Francia dove inizia a praticare la professione di chirurgo presso l’ospedale municipale di Clichy. Siamo nel periodo che anticipa il parto della sua prima grande opera. Nel 1932 esce infatti Viaggio al termine della notte e Louis sale con notevole rapidità gli scalini della notorietà. Il romanzo ottiene favorevoli recensioni sia da parte di critici di destra che di sinistra: una contraddittoria lettura che accompagnerà le opere di Céline anche dopo la sua morte. Nel 1933, Céline è ormai uno scrittore di fama nazionale e i commenti ai suoi lavori riempiono le pagine dei giornali e delle testate letterarie. Louis accetta il successo, ma, almeno in apparenza, ne rimane distaccato. Ciò che piace di Céline è il coraggio di immergersi nelle fogne dell’umanità, di sguazzare tra i nuovi ‘miserabili’, condannati alla sofferenza, ma anche inclini al peccato. La critica francese, compresa quella “progressista”, intravede in questa navigazione all’interno dell’intestino crasso della società non tanto un metodo utile per capire i veri motivi di un degrado sociale e morale, ma un mezzo per esorcizzare, in maniera colta, un impiccio. In fondo, parlare degli sventurati attraverso uno stile rivoluzionario ed un lessico aspro, dirompente, apocalittico e mefitico, quasi sulfureo, piace e bene si addice a quei critici d’avanguardia (di cui la Francia era ed è piena) che amano credere – magari sprofondati nelle loro comode poltrone in pelle e con un cognac in mano – nella loro sensibilità e nella loro acutezza. Céline descrive il dramma e loro ne prendono seriosamente atto. Tanto basta. D’altra parte l’autore non li delude mai, apparecchiando scenografie, immagini e storie di tale promiscuità e degrado, morale fisico, da fare impallidire il miglior Victor Hugo.
Fino da giovane, Céline ha sempre provato un gran gusto a rovistare nei meandri della miseria materiale e psicologica degli uomini. Con il passare degli anni ha poi addirittura acquisito il desiderio di costruirsi una nuova identità: un identità specificatamente popolare, ma ovviamente molto distante dalle sue vere origini. Fin dai suoi primi scritti, egli ha voluto ardentemente figurare come uno scrittore popolare: anzi, ha desiderato di trasformarsi nell’unica vera voce della gente. Non a caso egli ha frequentato (e continuerà a farlo anche in seguito, in veste di medico e chirurgo) soltanto povera gente e pochi spiriti da lui considerati illuminati. I disgraziati, gli emarginati, gli handicappati, i malati e i quartieri proletari, disadorni, umidi e maleodoranti lo attraggono magneticamente e lo inghiottono nei loro pozzi senza fine.
Questi anfratti dove la luce della giustizia non giunge mai e dove il male si rigenera automaticamente per mancanza di alternative, diventano presto gli scenari della sua indagine e della sua arte descrittiva. Céline ama raccontare la vita dei perdenti e dei derelitti, ma lo fa però a modo suo, con rabbia velenosa, cinismo misto a pietà, allucinata determinazione e afflato di tenebre. In fondo i pezzenti lui li conosce bene. Già da piccolo, nel suo quartiere, Céline li ha indagati e studiati come grossi insetti abbarbicati sul dorso di una società troppo indaffarata a produrre, a credere nella scienza e nel progresso tecnico. Un’aggregazione umana che quindi reputa la povertà alla stregua di un incidente, che tollera i nullatenenti con il disappunto di chi osserva uscire da una catena di montaggio un pezzo mal riuscito.
Per il cinico, ma anche appassionato Louis il dramma sociale e morale degli uomini senza scampo rappresenta invece qualcosa di effettivo e doloroso: un fenomeno antico ed immutabile, quasi una malattia incurabile, anche se in realtà, da buon medico, ne conosce l’eziologia. Questa patologia per lui si addice alla messa punto di un’interpretazione narrativa – non solo stilistica – audace, faticosa, complessa, articolata, al di là del tempo e dello spazio. Nelle descrizioni céliniane, infatti, presente, passato e futuro si alternano in maniera parossistica, anticipando e posponendo fatti, osservazioni ed emozioni, consentendo al “treno dei pensieri” di scorrere avanti e indietro lungo i binari ben oliati di una logica che talvolta sembra non essere tale. E Céline utilizzerà questo impianto e questo stile, seppure con taluni accorgimenti, anche in altre sue opere come Da un castello all’altro e Nord (racchiusi nella Trilogia del Nord, assieme a Rigodon).
«Dietro il suo cliché del ‘dottore dei poveri’» – ragiona Solinas, a proposito dell’interesse di Céline per i disgraziati – «fatica a scomparire il bell’uomo alto più di un metro e ottanta, che indossa abiti di buon taglio e stoffa inglese, biondo e con gli occhi azzurri, che conosce il mondo e il bel mondo, uno che a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra sa dove andare, come muoversi, cosa vedere, a proprio agio con pianiste come Lucienne Delforge, con scultrici come Louise Nevelson, con figlie della buona borghesia di provincia come Edith Follet, la sua prima moglie». Ma per Céline, «la falsificazione, meglio, la riscrittura di se stesso, è sistematica», sembra fare parte del suo essere in quanto tende ad avvolgere tutta la sua vita, le sue esperienze e le sue conoscenze. Semplice seppur bravo medico condotto e chirurgo, l’autore nei suoi racconti autobiografici è solito mischiare il vero al falso, come in una sorta di gioco compensatore, sottraendo e aggiungendo al suo vissuto aneddoti e avventure inventati.
Sembra quasi non potere resistere all’opportunità di arricchire il proprio curriculum di uomo e di artista a dire il vero già rigonfio di vicissitudini, molte delle quali importanti e talvolta sgomentanti. Basti pensare al suo viaggio americano, durante il quale una semplice visita alle officine Ford si trasforma per lo scrittore in un’esperienza di lavoro provata e sudata; o alla sua relativamente breve fuga nella Germania in fiamme, che agli occhi del profugo Céline si dilata nel tempo fino a trasformarsi in un’infinita, tetra e surreale odissea costellata da incontri e riflessioni circa la fragilità dell’individuo e la precarietà delle cose.
La caduta degli dei nazisti e lo sgretolamento dell’effimero sogno nazional-populista di Vichy offrono all’autore, che rabdomanticamente aveva previsto tale apocalisse, lo spunto per intessere una trama di situazioni ed immagini a tinte forti, tali da fare paragonare Singmaringen (laddove si erano rifugiati, sotto protezione tedesca, gli irriducibili di Vichy) ad una sorta di girone dantesco: un formicaio brulicante di cadaveri ambulanti, di sconfitti in cerca di improbabile salvezza e di affamati. Ed è proprio la fame, cioè l’indigenza e quindi la povertà e la precarietà, a fare nuovamente da filo conduttore al racconto dell’artista: in tempo di guerra come, precedentemente, in tempo di pace.
La narrazione apparentemente caotica, la ritmica incalzante e i drammatici contenuti delle opere di Céline hanno sempre stuzzicato i critici, traendo però in inganno buona parte di essi, alcuni dei quali hanno intravisto nel lavoro dell’autore il semplice tentativo di collaudare un linguaggio letterario d’avanguardia, tralasciando il reale importanza del soggetto trattato e discusso. «Non ci si lasci ingannare da chi dando alla lingua di Céline, alla modernità del suo linguaggio, un valore di pura sperimentazione, separa lo stile dal contenuto», spiega Solinas. «Al contrario Céline scrive in quel modo perché dietro quella scrittura si cela una Welthanschaung dove l’emozione, l’irrazionale, il fantastico, il primordiale sono gli elementi fondanti. È il rimpianto e l’esaltazione di un mondo non dominato dalla ragione né dal progresso, dove l’istintivo vince sul costruito, dove la bellezza fisica rimanda a uno stato di grazia premoderna, quando la spontaneità, il naturale erano i cardini dell’esistenza. Per ricostruire questo stato dell’essere e del sentire, l’unico modo è sventrare una lingua francese cartesiana, illuminista e illuminata, fiera della sua chiarezza quale negli ultimi tre secoli almeno è andata formandosi. Céline usa l’ariete dello stile non per andare avanti, ma per tornare indietro».
Tra un romanzo e l’altro, Céline trova il tempo per vergare una valanga di articoli e libelli contro la media borghesia corrotta dal “modernismo” e, naturalmente, contro il grande complotto ebraico-capitalista (vedi Bagatelle per un massacro, lavoro che uscirà nel dopoguerra, a dimostrazione del perdurare delle sue convinzioni politiche).
Nel settembre 1939, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Céline indossa nuovamente la divisa e si arruola, volontario, come ufficiale medico della marina francese. Dopo la resa della Francia, nel giugno del ’40, egli rifiuta inizialmente di schierarsi con il governo collaborazionista di Vichy e si rifugia nella clinica municipale di Satrouville dove continua a praticare la professione medica. Dopo essersi sposato per la terza volta (nel 1936 aveva conosciuto la giovane ballerina Lucette Almanzor) Céline decide però di compromettersi e inizia a dare voce alla sua campagna filo-tedesca e antiebraica. Verso la fine della guerra, con il ritiro delle truppe tedesche dalla Francia, egli è costretto a rifugiarsi in Germania, a Sigmaringen, con la famiglia e il gatto Bébert.
Nel 1945, il nome di Céline spicca già nella lunga lista dei collaborazionisti stilata dai gollisti e dal movimento di resistenza francese, i cui capi pregustano un bel bagno di sangue purificatore in nome della patria e della democrazia. Céline viene accusato di tradimento e con questo rischia la pena capitale. Dalla Germania fugge quindi in Danimarca, dove vivrà da esule fino al 1950, quando il governo di Parigi lo grazierà e gli consentirà di rientrare in patria. Ma l’accoglienza che il mondo intellettuale francese del dopoguerra riserva allo scomodo scrittore non è ovviamente delle migliori.
Dati i suoi trascorsi politici, anche la sua opera viene obliterata. I suoi libri non vengono bruciati ma, peggio, dimenticati. Nei circoli culturali tutti fanno a gara per distanziarsi da quella che viene chiamata la “scheggia impazzita” della letteratura contemporanea francese. Céline viene di fatto emarginato e anche i suoi vecchi editori (che si sono arricchiti con i suoi libri) e compagni di avventura, alcuni dei quali si sono reintegrati nella nuova società francese, lo rinnegano. Meglio non compromettersi con chi ha visitato l’inferno, ha fornicato con il diavolo e, nonostante tutto, è stato graziato dai nuovi dei in virtù del suo solo, indiscutibile, talento.
Tenersi lontano dal dannato miracolato diventa la parola d’ordine, e poi, ragazzi, si parla di un balordo come Céline che nei panni dell’illustre appestato non fatica certo ad entrare, divertendosi (ma fino a che punto?) a mostrarsi nauseato dall’ingratitudine dei suoi compatrioti e a lanciare frecce avvelenate ai molti mediocri prudenti che, nella Francia del dopoguerra, sono succeduti ai folli e ai violenti passati per le armi. Non di rado – allorquando riceve la visita di qualche giornalista in cerca di reduci maledetti – egli non perde occasione di azzannare i suoi persecutori per i danni, morali ma anche economici, causatigli dall’esilio forzato e dall’epurazione. Di torti, egli sostiene, gliene sono stati fatti tanti. Certo, in Danimarca egli ha sicuramente sofferto, è finito anche in galera (ci è restato sei mesi), si è ammalato, ma alla fine è potuto rientrare a Parigi dove in fin dei conti nessun giudice lo ha spedito al patibolo, come invece è toccato ad altri celebri uomini di cultura che hanno collaborato con il maresciallo Pétain, vedi il povero Brasillach. Detto questo non si può fare a meno di constatare che il Céline del 1950 – come osserva Solinas – «è di fatto un sopravvissuto, un uomo economicamente rovinato, rispetto alle possibilità economiche di prima della guerra. I suoi libri non si ristampano, e quando iniziano a essere ristampati non si vendono». Féerie pour une autre fois I-II (1952-54) e D’un château a l’autre (1957) ottengono pessime critiche. Rigodon viene addirittura censurato.
E veniamo all’ultimo capitolo della ‘parabola Céline’. Dopo essere riuscito ad incassare alcuni emolumenti derivanti dalle sue precedenti pubblicazioni e avere messo da parte una certa rendita, l’autore si apparta, anzi si barrica. Trova rifugio insieme a Lucette in una vecchia casa piena zeppa di libri e cianfrusaglie, circondato da cani e gatti, con accanto il pappagallo Toto spesso ritratto sulla sua scrivania ingombra di fogli, pile di manoscritti, matite, penne e avanzi della cena. Lo si vede aggirare nel suo studio, più simile ad un garage, con il foulard al collo, un paio di vecchi pantaloni tenuti su da una corda, maglioni consunti ed infilati l’uno sull’altro, come i barboni. La sua fronte è solcata dalle rughe, la barba lunga, lo sguardo perso nel vuoto.
Borbotta e scrive, con la sua solita rabbia, con la sua solita genialità. Lavora tutto il giorno, ignorato dai più, e nelle rare soste gioca con i suoi gatti o chiacchiera con Toto. E alla fine muore, apparentemente come chiunque altro, il 1° luglio 1961. Ma in realtà egli se ne va come un artista autentico – cioè praticamente solo – inseguito dai primi echi di una riabilitazione critica troppo tardiva e forse indotta da inconfessabili sensi di colpa.
Opere principali
Viaggio al termine della notte
Il Voyage è indubbiamente il più famoso romanzo di Céline. Esso è un affresco della razza umana, sicuramente uno dei romanzi che meglio ha saputo capirla e rappresentarla. Affronta tutti i temi più importanti del XX secolo: la guerra, l”industrializzazione, la decadenza coloniale, l’impoverimento e l’aridità delle coscienze.
È la storia di un medico, Bardamu, alter ego dell’autore, che dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale si imbarca per le colonie, di qui agli Stati Uniti e poi nuovamente in Francia dove diventa medico dei poveri.
Il romanzo è un pretesto per la riflessione sulla vita di Céline, viene infatti imbastito di aforismi sul senso o meglio sul non-senso di questa cosa incerta che per convenzione tutti chiamano vita.
Céline usa la parola come un bisturi, seziona la realtà con un piglio cinico, che è in realtà il grimaldello per scardinare la convinzione ottusa, i rapporti falsi, la vanagloria, i grandi ideali che a suo dire, non sono che “i nostri peggiori istinti vestiti di paroloni”.
Ma tutto questo non per spregio, anzi, ciò che muove Céline (tanto il medico quanto il letterato) è un disperato amore per la vita, l’angoscia di vederla stuprata dalla modernità, dai falsi idoli, dalla guerra.
Morte a credito
Pubblicato nel 1936, è il secondo romanzo di Céline, lo stile è spinto ancor più all’estremo, l’argot balla galleggiando su quei tre punti di sospensione che non lasciano riprendere fiato. In Italia arriva piuttosto tardi, intorno agli anni sessanta, in una traduzione monumentale di Giorgio Caproni. È considerato uno dei capolavori della letteratura francese del Novecento.
È un romanzo che segue un filo autobiografico, infatti il protagonista è un ragazzo di nome Ferdinand, che deve affrontare la vita nel Passage Choiseul, il suo inserimento nel mondo del lavoro, i suoi viaggi studio.
Il romanzo è una presa di distanze dalla vita, che non è quello che generalmente l’uomo crede e che alla fine porta a conquistare l’unico credito che siamo sicuri di riscuotere.
«Eccoci qui, ancora soli. C’è un’inerzia in tutto questo, una pesantezza, una tristezza… Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita una buona volta. Gente n’è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m’han detto gran che. Se ne sono andati. Si sono fatti vecchi, miserabili e torpidi, ciascuno in un suo cantuccio di mondo.» [Louis-Ferdinand Céline, Morte a Credito]
I pamphlet
Nel 1936 Céline raggiunta la notorietà decide di intraprendere un viaggio in Russia per conoscere la cultura sovietica. Questo viaggio sarà documentato nel libello Mea Culpa, una pesante accusa al comunismo inteso come utopia.
Rispettivamente nel 1937 e nel 1938 pubblicherà Bagatelles pour un massacre e l’École des cadravres. Questi due pamphlet gli costeranno pesanti accuse di antisemitismo.
Nel 1941 esce negli ambienti filonazisti, in edizione limitata, Les Beaux Draps. Le opere antisemite di Céline non potevano essere vendute a seguito di una condanna per diffamazione del 1939.
Nel frattempo il suo stile di scrittura è diventato sempre più rivoluzionario. L’argot, lingua gergale, da lui usato per la scrittura sfocia sempre più spesso in una specie di delirio. Falso delirio, perché Céline prima di pubblicare correggeva le bozze almeno tre volte, apportando anche pesanti cambiamenti.
Trilogia del nord
D’un château l’autre (Da un castello all’altro nella traduzione) è il primo di una serie di tre romanzi che saranno per l’Italia riuniti sotto il nome di Trilogia del Nord (scritta negli anni di Meudon), gli altri due titoli sono Nord e Rigodon, i quali impegneranno l’autore fino alla morte.
Nei tre romanzi si narrano le peripezie di Céline, della moglie Lili e del gatto Bébert che sfuggono per la Germania in fiamme. Scappati dalla Francia come collaborazionisti della Germania nazista, cercano in ogni modo di andare verso nord e raggiungere la Danimarca.
In questi romanzi la petite musique céliniana raggiunge la sua massima espressione, e persino la vena narrativa torna ad essere avvincente come nei primi titoli pubblicati.
Lascia un commento