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Georges Simenon [Liegi, 13 febbraio 1903 – Losanna, 4 settembre 1989]

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Il baraccone degli specchi: appunti sullo straniamento in letteratura

Iniziare un romanzo di Georges Simenon è per me un piacere che si rinnova ogni volta. Eppure l’altra notte mi è successo qualcosa d’insolito, qualcosa comune all’esperienza di tutti quei fortunati lettori che si sono imbattuti nella descrizione di uno straniamento:

«Félicie corse avanti, tese il braccio, spinse la porta a vetri. Fu allora che scattò la suoneria e fu allora che il fenomeno si verificò. Non era una suoneria qualunque. Dietro la porta erano appesi dei tubi di metallo leggero che urtandosi producevano, come un carillon, una musica celestiale. Una volta, quando Maigret era ragazzo, nella salumeria del suo paese, che era stata appena rimessa a nuovo, c’era un carillon come quello. Il tempo parve fermarsi, l’attimo presente rimase sospeso. E Maigret si sentì davvero fuori dalla scena che si stava svolgendo, la osservò come se non fosse più il massiccio commissario che arrancava dietro a Félicie. Era di nuovo il bambino di allora…»

 (Georges Simenon, Félicie, Adelphi, Milano, 2001, p. 12).

Georges Simenon [Liegi, 13 febbraio 1903 – Losanna, 4 settembre 1989]Lo straniamento di Maigret sulla pagina poi coincideva con il mio. Così come Maigret al suono del carillon tornava bambino, io pensavo, mentre leggevo, alla cara amica che mi aveva donato il libro. Maigret non era sulla scena, io nemmeno: straniamento del personaggio, estraniarsi del lettore. Non mi era mai successo.

Ho iniziato allora a pensare alle pagine stranianti che avevo incontrato nelle mie esperienze di lettura. La prima pagina che mi è venuta in mente, è stata quella, molto famosa, della Recherche, dove Proust racconta di aver bevuto un cucchiaino di thé con una madeleine, un piccolo pasticcino: «un plasir délicieux m’avait envahi, isolé, sans la notion de sa cause. Il’m’avait aussitot rendu les vicissitudes de la vie indifférentes, ses désastres inoffensifs, sa brièveté illusoire.» [M. Proust, Du coté de chez swann, Librairie Général Française, Paris, 1992, p. 84]

Certo, il piccolo pasticcino, come si scoprirà, è qui catalizzatore di ricordi passati, ma in un primo momento l’autore non riesce ad attribuire la forte sensazione di felicità che lo “isola” dal reale, ai ricordi connessi con la madeleine. Si tratta quindi di un piccolo straniamento, anche se dato da oggetti che ben presto rientreranno nel novero del reale. Fin qui lo straniamento appartiene ai personaggi. Esistono però casi in cui l’effetto è ricercato dall’autore per stupire, spiazzare ed estraniare il lettore.

Penso in particolare due casi, l’incipit di Infinite Jest e quello di A un cerbiatto somiglia il mio amore di David Grossman. Nel primo romanzo, opera di David Foster Wallace, il protagonista, Hal Incandenza, crede di intrattenere la commissione universitaria con un discorso ben articolato. All’improvviso però, il lettore scopre, assieme alla commissione, che tutto quanto Hal ha pronunciato, è uscito sotto forma di un urlo disumano. Regredito ad uno stato primordiale, il protagonista sente formarsi i pensieri, ma non riesce più a comunicare con l’esterno. Questa doppia percezione – di Hal e della commissione – spiazza completamente il lettore che, sino al resoconto dell’urlo, non aveva alcun motivo per non credere che le parole di Incandenza fossero recepite. L’effetto di straniamento è qui potente ed efficace, in grado di stupire qualsiasi lettore.

Una situazione analoga – perdonatemi la digressione – si trova anche nel film di Julian Schnabel Lo scafandro e la farfalla (2007). All’inizio della proiezione, non capiamo come mai chi sta parlando non sia ascoltato, salvo poi scoprire che il protagonista, vittima di un ictus, crede di parlare ma – proprio come Hal Incandenza – non emette suoni articolati. Unica differenza, qui il silenzio, nel romanzo di Wallace, l’urlo.

Anche nel sopraccitato romanzo di Grossman non si capisce chi è che parla, almeno fino a pagina 11 (edizione Mondadori), è un dialogo tra due voci nel buio:

– Ehi, tu, sta’ zitta!
– Chi è?
– Sta’ zitta hai svegliato tutti!
– Ma io la tenevo per mano.
– Che cosa?
– Sul masso, eravamo sedute e…
– Ma di che masso parli? Lasciami dormire.

David Foster Wallace [Ithaca, 21 febbraio 1962 – Claremont, 12 settembre 2008]E così via. Quanto siamo lontani dalle tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione! Queste due voci potrebbero essere in ogni luogo ed in qualsiasi momento, mentre l’azione è scomparsa. Certo, il romanzo le ha destrutturate da tempo, però fa un certo effetto vederle infrante così pesantemente. Effetto che finisce per provocare straniamento a causa della mancanza totale d’informazioni.

Vorrei terminare con una pagina magistrale, che non ha eguali nella storia della letteratura. Nel suo celebre saggio Mimesis, sul mimetismo, ovvero la capacità di aderire al reale della pagina scritta, Erich Auerbach individua un caso, forse unico, di straniamento dell’autore. Se consideriamo la pagina di To the Lighthouse (Al faro), di Virginia Woolf, in cui la protagonista Mrs. Ramsey misura un calzerotto marrone al figlio James, la narrazione s’inceppa, non si capisce chi parla in quel punto. Non certo la signora Ramsey, né tantomeno il figlio James o la stessa Virginia Woolf. Auerbach ci fa notare come, in questo passo, l’autrice sia così reticente da dimenticarsi dei suoi personaggi. A parlare – sostiene il critico tedesco – è qualcuno che guarda il volto della signora Ramsey ed “esprime l’emozione in un modo che sfiora il surreale”. Qualcuno cui la Woolf, stranita, affida la narrazione:

«Il calzerotto era scarso, a dir poco, d’un dito, anche tenendo presente che il bambino di Sorley, era meno sviluppato di James.
– Ê troppo corto – ella sospirò, – troppo corto davvero.
Nessuno parve mai tanto triste. Nera e amara, a mezza via in una cupa profondità, nel canale tra il sole e l’abisso, una lacrima si formò, forse cadde; e le acque agitate la raccolsero e si placarono. Nessuno parve mai tanto triste.»

La parte che ho sottolineato rimane dunque un mistero. Chi è che parla qui? Auerbach propende per una sorta di spiriti, che in un altro punto del romanzo (II, 2), passano di notte per la casa dormiente, “questioning and wondering”.

Si potrebbe continuare: Gadda, Queneau, Robbe-Grillet, ad esempio, hanno deformato il linguaggio in un modo che spesso provoca straniamento in chi legge. È però una sensazione variabile, del tutto soggettiva, per cui non mi dilungherò oltre. Ho soltanto gettato un sassolino nel mare, spetta a voi approfondire, sempre che ne abbiate voglia, perché il lettore regna sovrano, non ha nessun obbligo, ed è questa grande libertà l’arma più accattivante della letteratura.

 

Fonti

Spigoli & Culture

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