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Giacomo Casanova

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I serpenti di Casanova

In Inghilterra, il 15 febbraio del 1615, a ottantun anni di distanza dal naufragio nel quale, non ancora adolescenti, si riteneva che fossero periti, Edouard e Elisabeth si presentano nel castello del conte di Bridgend al loro padre, Jacques Alfrède, di centonove anni, e alla loro madre Guillemine, centoseienne.

A queste circostanze già abbastanza straordinarie si aggiunge un fatto che ha dell’ incredibile: Edouard e la sorella dimostrano appena venticinque anni. Una vecchia, presente alla scena insieme a un contadino, e che in gioventù era stata la compagna inseparabile di Elisabeth, non può risolversi a credere a ciò di cui i suoi stessi occhi la rendevano convinta.

Molti accorrono. Un prete tenta invano di esorcizzare i due giovani. Il conte di Bridgend, sopraggiunto a tanto clamore, e curioso per carattere, dispone di ascoltare, in compagnia dei suoi parenti ed amici, la storia dei due falsi giovani fino alla fine, ossia per venti giornate consecutive.

Giacomo CasanovaCosì, dopo essere stato ragguagliato sui principali avvenimenti accaduti in Inghilterra negli ultimi ottant’anni, Edouard dà inizio al suo racconto: dal quale apprendiamo che il mondo nel quale ha trascorso con la sorella tutto quel tempo, è situato al di sotto della crosta terrestre; è un mondo convesso, il Protocosmo; ed è abitato da piccoli esseri straordinari, i Megamicri, grandi di animo e piccoli di statura, alti più o meno come un lattante, ai quali una cartilagine forma una specie di visiera sulla fronte. E sono di tutti i colori, anche a macchie; ma i più importanti sono i rossi.

Nel loro mondo l’aria è del tutto diversa dalla nostra, vi è una sola stagione, il Sole dell’ interno della Terra manda un tepore costante, la notte non esiste, i Megamicri non dormono, e il loro regime di vita non varia mai.

Un grande ammiraglio, ospite del conte di Bridgend, chiede naturalmente come si possa andare a conquistare un mondo del genere, pensando alla gloria che ne verrebbe a colui che riuscisse in questa impresa e a quella che ne trarrebbe l’Inghilterra. Edouard assicura che non si tratta di un mondo che possa essere conquistato, e aggiunge: «Ditemi, onorevole lord, quale ingiuria, quale male hanno fatto i buoni Megamicri all’Inghilterra perché essa abbia qualche ragione di andare ad assoggettarli, non appena viene a sapere della loro esistenza?». In quel mondo, sostiene Edouard, si ignora che possa essere cosa lodevole quella di rendere altri miserabili per far grandi se stessi. Un altro signore trova che quest’opinione sent un peu le sauvage.

Questa è la situazione con cui si apre Icosameron, uno sterminato romanzo di Giacomo Casanova adesso ripubblicato in Francia, e che l’editore Francois Bourin presenta come il capolavoro sconosciuto di Casanova. Scritto in francese, come del resto i Mémoires, fu pubblicato a Praga nel 1788, in cinque volumi. Sepolto sotto due secoli di oblio (se si esclude un’edizione, sempre in cinque volumi, pubblicata a Spoleto nel 1928 da Claudio Argentieri e riprodotta in facsimile in Francia in anni più recenti), Icosameron riemerge oggi dalle profondità cartacee della nostra cultura come un territorio ignoto ai più.

L’edizione di Francois Bourin, in un solo volume, segue quella di Praga, salvo una parziale modernizzazione della punteggiatura e dell’ortografia, e il taglio di tre brani: restano 777 pagine con l’indice, al prezzo di 160 franchi. Che Casanova abbia potuto immaginare, alla vigilia della Rivoluzione francese, qualcosa che assomiglia alla nostra televisione, o all’aeroplano, o all’automobile, o comunque a un mezzo di locomozione funzionante per forza propria, senza essere trainato da cavalli o da altri animali, può non essere ciò che più sorprende.

Si condivida o meno l’opinione di qualche recensore d’Oltralpe, secondo la quale Verne, dopo Casanova, non avrebbe inventato nulla di nuovo in materia di viaggi al centro della Terra, la cosa che più stupisce resta proprio il fatto che il grande seduttore si sia applicato a una materia affine non solo a quella poi trattata da Verne, ma anche a quella dei Viaggi di Gulliver di Swift. E che vi si sia applicato con una tale pedanteria in fatto di leggi fisiche, chimiche, della gravità, anzi delle gravità contrapposte, con così dettagliate descrizioni di costumi, credenze religiose, sistemi di governo, e con un così vivo e quasi infantile entusiasmo per gli avvenimenti che quel mondo finiscono con lo sconvolgere, da non lasciare alla fantasia se non lo spazio che potrebbe avere in una gabbia.

Per quanto lussureggiante, per quanto inesauribile, l’immaginazione finisce spesso con l’arenarsi nelle secche dell’infinito. Ma è proprio quella gabbia che lascia senza fiato, quel suo mostruoso svilupparsi in un terreno che può sembrare dell’utopia o della fantascienza, ma che in realtà è un viaggio all’interno della mente umana, solitaria, maniacale. Così come lo sono tutti i viaggi nel futuro, al pari di quelli nel passato; o i viaggi nello spazio, non dissimili per molti versi da quelli nelle viscere della Terra. L’universo delle Guerre stellari mescola sempre il troglodita e il robot, la caverna e l’astronave, un mondo ridotto a deserto e oasi artificiali.

Delle trecentocinquanta copie della prima edizione di Icosameron ne furono sottoscritte centocinquantasei. È difficile dire se i lettori di allora restassero perplessi di fronte alla mole dell’opera, che certo ne ha reso difficile la riesumazione. Si fa presto infatti a entrarvi, tanto è splendido il racconto del naufragio, e del viaggio che i due ragazzi compiono prima negli abissi marini, e poi attraverso il passaggio che li conduce da una stratificazione geologica ad una atmosferica, da un colore ad un altro, dalla disperazione alla speranza, fino al mondo dei Megamicri: chiusi in un bara di piombo, gigantesca e resistentissima, simile a un sottomarino, che un marinaio teneva sul ponte della nave dalla quale i due sono precipitati (per non essere divorato dai pesci in caso di morte), e che ha al suo interno, tra l’altro, provviste d’acqua e d’acquavite, e oblò su ogni lato per guardare fuori; asportabili nel caso si voglia far entrare aria.

E ci si appassiona alle opere d’ingegneria con cui i Megamicri tirano fuori la bara dal letto di un fiume, e la fanno fondere ai lati per poterla aprire. Poi, con lo scorrere delle pagine, si fa fatica ad andare avanti, sebbene il romanzo mostri una sua logica: quella distorta e densa di simboli dei sogni. Proprio come certi pranzi, più o meno pantagruelici, che tendono ad evocare un ordine cosmico, dalla minestra vegetale al pesce ai volatili al manzo ai formaggi, che segnano il ritorno al latte dell’infanzia, all’orgasmo alimentare del lattante sazio. Di allattamento in Icosameron si parla molto, dato che in tal modo si nutrono i Megamicri: allattandosi l’un l’altro, dotati tutti indistintamente di tette adatte all’uopo. Il loro latte, rosso come il sangue, è nutrimento, fonte di piacere e di eterna giovinezza; e porta, oltre un certo limite, all’ubriachezza che induce il torpore, il sonno proibito.

Ora, se è facile individuare nel viaggio all’interno della cassa da morto una metafora appunto della morte, e nell’addentrarsi nelle viscere della Terra un ritorno alla vita intrauterina, modello secondo alcuni, e in particolare secondo Georg Groddeck, di ogni idea di paradiso terrestre che l’umanità si sia creata cosicché il nascere e il morire finirebbero col coincidere, almeno da un punto di vista psicologico, è indubbiamente assai più difficile districarsi tra altre rappresentazioni di questo singolare Eden e della sua corruzione.

 width=Le pagine in cui Casanova descrive il primo allattamento che i suoi eroi ricevono dai Megamicri, e il sentimento che essi ripongono in questo gesto, sono di una delicatezza e di una tenerezza tali da far capire quale sia la pasta non tanto del vero libertino, ma di colui che ama veramente le donne, e che sul loro seno torna bambino. Casanova sostiene che i Megamicri, giungendo, pur eternamente giovani, all’ultimo istante della vita, provano un parossismo di questo piacere, che agli uomini giganti della superficie terrestre mancherebbe; e poi la religione, forse, non lo troverebbe conveniente e lancerebbe un’ interdizione contro un piacere che, dopo averci conservato la giovinezza, finisse per causarci la morte. L’acutezza delle riflessioni di Casanova è talvolta improvvisa e fulminante.

I Megamicri hanno, come in India le vacche, degli animali sacri: sono dei serpenti che li terrorizzano, stanno sugli alberi e ne mangiano i frutti, cosicché nemmeno i frutti possono essere toccati. I rettili hanno la testa e la fisionomia simili a quelle degli esseri umani, ma senza collo e senza capelli. Quando i mostri sibilano, ai Megamicri si gela il cuore: tremano e fuggono. Temendoli, dovrebbero odiarli, ma l’odio impotente diviene ovunque, con il tempo, profondo rispetto e sovente adorazione. La ragione di ciò è che l’odio mira alla vendetta e, essendo un’emozione violenta, se non giunge a dissiparsi con la distruzione dell’oggetto odiato, deve ricadere a carico dello spirito, che se ne disfa trasformandolo in affetto dolce, a seconda della propria natura e della propria forza. Un processo che la psicoanalisi ha elaborato all’infinito, e che nemmeno Freud ha espresso in sintesi con la stessa eleganza.

Edouard e Elisabeth, durante la loro permanenza presso i Megamicri, danno luogo a una discendenza di oltre quattro milioni di individui, metà maschi e metà femmine, perché ogni parto porta una coppia di gemelli di sesso diverso. Eugène Ionesco racconta nel suo diario La ricerca intermittente, recentemente pubblicato da Guanda, che Peter Hall, regista a Londra della Lecon, dette dell’imbecille al traduttore quando vide che il professore della pièce uccideva quaranta allieve al giorno. Al che Ionesco ammise che l’idiota era lui: effettivamente il suo professore uccideva da vent’anni quaranta allieve al giorno. Allora Peter Hall pregò lo scrittore di far uccidere, a Londra, soltanto quattro allieve al giorno. Chissà cosa direbbe della discendenza dei due fratelli di fronte a una versione inglese di Icosameron!

Casanova ne approfitta invece per fare alcune riflessioni di sorprendente attualità sulla sovrappopolazione e sul modo di sfamare gli uomini. In un paradiso, sia pure sottoterrestre, l’umanità non può che desiderare di cibarsi dei frutti proibiti, previa eliminazione dei serpenti dal volto umano. La guerra ai serpenti è la prima scintilla, segna il mutamento di un ordine. In tal modo Edouard e i suoi discendenti si liberano dei Megamicri-nutrici, oltre che dei giardinieri addetti agli alberi e ai mostri. Poi vi saranno altre guerre, ma quella contro i serpenti, lunga e appassionante, è l’inizio del progresso, avvertito contemporaneamente, e più o meno inconsciamente, come distruzione; è l’inizio dell’emancipazione dell’uomo che passa attraverso l’uccisione: non a caso, qui, di un mostro dal volto umano che lo sovrasta.

 

Fonti

– Si ringraziano per il contributo Andrea Frullini ed il sito Repubblica.it, articolo del 21 marzo 1989.

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