E Casanova corteggiò la Teologia
A sessant’anni, Casanova, spinto dall’inquietudine che lo aveva dominato lungo tutta la sua avventurosa esistenza, lasciò Vienna, dove era rimasto per quasi due anni al servizio dell’ambasciatore di Venezia Foscarini: come compilatore di dispacci. Aveva tentato senza successo di proporsi all’imperatore Giuseppe II come organizzatore di balli e divertimenti. L’ambasciatore era spirato fra le sue braccia.
La vecchia amicizia-inimicizia con Lorenzo Da Ponte, allora poeta dei teatri di corte, non gli era servita a molto. Aveva deciso di recarsi a Berlino, dove sperava di ottenere un posto nell’Accademia. Senonché, sulla strada, a Toeplitz, il conte di Waldstein, che aveva già frequentato in casa dell’ambasciatore di Venezia a Parigi, gli offerse il posto di bibliotecario nel castello di Dux (attuale Duchcov, in Cecoslovacchia), considerato lo Chantilly della Boemia.
Casanova accettò. Il conte di Waldstein amava la società delle persone colte e brillanti. Casanova credette di aver trovato non solo un luogo dove trascorrere la vecchiaia, ma dove avrebbe potuto dare un ordine ai suoi pensieri, e avrebbe potuto travasare in un grande racconto la propria vita, placando quel senso di inconsistenza, quell’inquietudine che talvolta lo opprimevano. Il principe de Ligne, che trascorse assai spesso l’estate nel castello di Dux e che strinse amicizia con Casanova apprezzandone l’erudizione e l’immaginazione, tuttavia avverte: «Che non si creda che in quel porto di tranquillità che la beneficenza del conte di Waldstein gli aveva aperto per preservarlo dai temporali, egli non sia andato a cercarne; non vi è giorno che per il suo caffè, il suo latte, o per il piatto di macaroni che esigeva, egli non avesse una lite nella casa. Il cuoco gli aveva sbagliato la polenta, lo scudiero gli aveva dato un cattivo cocchiere per venire a visitarmi, dei cani avevano abbaiato durante la notte; alcuni convitati in più di quanti non ne attendesse Waldstein erano stati la causa per la quale aveva dovuto mangiare ad una piccola tavola. Un corno da caccia aveva lacerato le sue orecchie con suoni aspri o falsi. Il curato lo aveva annoiato decidendo di volerlo convertire. Il conte non gli aveva detto buongiorno per primo. La minestra, con malizia, gli era stata servita troppo calda. Un valletto lo aveva fatto attendere prima di versargli da bere.».
E così di seguito. Una vita come racconto, Casanova fa ridere per le sue arrabbiature, per il fatto di sentirsi continuamente perseguitato: «Egli ha parlato tedesco», scrive ancora il principe de Ligne, «non lo si è inteso. Si è adirato, e si è riso. Ha mostrato dei suoi versi francesi, si è riso. Ha gesticolato declamando dei suoi versi italiani, si è riso. Ha fatto la riverenza entrando, come Marcel il famoso maestro di danza gli aveva insegnato tanti anni prima, si è riso. Si rideva per come ballava il minuetto, per certi suoi capi d’abbigliamento». “Cospetto!”, gridava Casanova, e li accusava di essere dei giacobini, di mancare di rispetto al conte, e accusava il conte di mancare nei suoi riguardi perché non li puniva.
Un giorno il conte gli si presentò con due paia di pistole, come per sfidarlo a duello, Casanova si commosse e ancor più si confuse… Partì di nascosto, un viaggio di sei settimane fino a Berlino, poi tornò a Dux. «Io sono fiero», diceva, «perché non sono niente.». Per redimere la sua vita dall’inconsistenza la tramutò dunque in racconto: nel quale si placava l’inquietudine non solo del presente ma anche del passato, che increspava i ricordi e ombreggiava i successi, le conquiste femminili.
Lesse enormemente, e la sua erudizione lo portò a filosofare, non solo con superficialità, come ha sostenuto Stefan Zweig. Non credo tuttavia che egli avesse compreso fino in fondo il secolo del quale è diventato uno dei simboli. Nella cultura di quel secolo Casanova dovette restare un parvenu: egli credeva in ciò che faceva, in ciò che scriveva, in ciò che pensava, o in ciò che narrava; e visse in un secolo che adorava la finzione, che amava le oscillazioni della virtù verso il vizio e il vizio che si nasconde nella virtù, che prediligeva la menzogna rispetto alla verità perché il mentire è un’arte e può assumere forme magnifiche e persuasive, mentre la verità balbetta, come l’amore.
Virtù femminile Chi è innamorato, non è capace di sedurre: solo chi non lo è può dispiegare all’infinito l’imitazione dell’amore. Casanova mentiva, ma credeva nelle sue menzogne, e questa fede è il suo limite, rispetto alla cultura del secolo, ed è insieme la ragione della sua grandezza. È, quella fede, ciò che differenzia le Memorie di Casanova da romanzi a tesi come Le sopha di Crebillon Fils o i Bijoux indiscrets di Diderot.
Apparentemente nel diciottesimo secolo la virtù femminile veniva rappresentata come assai fragile, ma era ritenuta fisiologicamente necessaria allo sviluppo del sentimento amoroso; che senza quell’ostacolo non avrebbe mai potuto crescere d’intensità; e non avrebbe quindi dato luogo alle oscilalzioni che governano la vivezza e la ricchezza del sentire. Se, come sostengono Crebillon e Diderot, e anche Da Ponte nel Così fan tutte, la virtù femminile è finzione, anche l’amore è finzione. Come in un’Altalena di Fragonard, due giovanotti che spingono una ragazza danno luogo a oscillazioni non solo fisiche: dalla realtà alla fantasia, dalla virtù… alla pittura, al racconto, ai suoi segreti tremori, che imitano la natura.
L’inquietudine di Casanova appare più ingenua e più reale, sebbene egli fosse entrato nei meccanismi della scrittura e dell’imitazione. Gli manca tuttavia la levità, e quella grazia che il secolo sembrò coagulare nel suo contemporaneo Mozart. Gli Scritti libertini, ossia una scelta di scritti filosofici ai quali certo il titolo non corrisponde, che l’editore Rusconi ha pubblicato a cura di Federico Di Trocchio, mostrano quanto la sua mente si arrovellasse, almeno negli ultimi anni, ossessivamente intorno all’idea di Dio; e con quanta erudizione egli si adoprasse a riscattare quell’inconsistenza di sé che non poteva essere confusa con la delicata leggerezza del secolo.
È interessante vedere quale conoscenza avesse raggiunto della storia e dei vangeli, anche degli apocrifi, e quale uso ne facesse, l’autore di un romanzo fantastico come Icosameron; ma alla fine è difficile sfuggire a una sensazione di noia. E si insinua, sottile, il vecchio dubbio del Casanova parvenu, giunto a un’erudizione spessa come una pelle di rinoceronte, e non sottile come quella di una bella donna; incapace di renderla interamente finzione, trasparenza, scrittura, pittura, dramma. O anche ossatura filosofica, o teologica.
Una riscoperta di Casanova non può essere che critica, al di là del mito, che non nasconde le carenze di un grande dilettante. Solo a un perfetto livello di finzione la scrittura reinventa la profondità e la leggerezza e l’amore; come fa Crebillon Fils nel Sopha: Tanto più ella si era difesa contro il suo amore, tanto più credeva di dovergli provare quanto la sua resistenza le fosse costata, e dargli una specie di compenso per i tormenti che ella gli aveva fatto così a lungo provare. Ella avrebbe arrossito di armarsi di quella falsa decenza che tanto spesso guasta e corrompe i piaceri, e che, sembrando mettere senza cessa il rimorso di fianco all’amore, lascia, in mezzo alla felicità stessa, una felicità ancora più dolce da desiderare.
Proust, certo, è debitore della scrittura del diciottesimo secolo. La vita e il pensiero di Casanova raggiungono un alto grado di leggibilità quando si inseriscono in quella geografia, e geometria, letterarie: quando riusciamo a cogliere il sosia che si sdoppiò da lui nel momento in cui intraprese la stesura dell’Histoire de ma vie. È qui che Casanova poté oscillare concretamente fra la realtà e la fantasia; verso un mentire che è imitazione del sentire. Prendiamo il caso, famoso, della monaca M.M., vi sono passi rivelatori: «Oltre la nascita, la bellezza e lo spirito della mia nuova conquista, qualità che costituivano il suo merito reale, il pregiudizio vi si mescolava al fine di rendermi la felicità incomprensibile, poiché si trattava di una vestale; era un frutto proibito…». E più avanti: «Soltanto l’uomo è dotato di organi tanto perfetti da creare un vero piacere a lui particolare; poiché, munito dalla natura della facoltà sublime di ragionare, egli lo prevede, lo cerca, lo compone, lo perfeziona, e lo estende attraverso la riflessione e il ricordo. Ti prego, caro lettore, di non stancarti di seguirmi; perché oggi che non sono più che l’ombra o la reminiscenza del focoso Casanova, mi piace chiacchierare…».
Ed è proprio quella reminiscenza, quell’ombra, che si inserirono tra i mentiti amori e le mentite virtù del secolo: in essi si travasò il povero, un po’ prosciugato ma ancora erculeo Casanova di Dux, che de Ligne amava, o si compiaceva di amare; perché, nel narrare, metteva una tale originalità, ingenuità, una forma drammatica per porre tutto in azione, che non si saprebbe troppo ammirarlo.
Fonti
– Si ringraziano per il contributo Andrea Frullini ed il sito Repubblica.it, articolo del 19 dicembre 1990.
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