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Gardenio Granata, Lo ΦΘΟΝΟΣ degli Dei nella letteratura greca del V secolo a.C.

«σχέτλιοί εστε, θεοί, ζηλήμονες έξοχον άλλων»
“Maligni siete, o dei, e invidiosi più d’ogni altro”

[Omero, Odissea, V, 118]

Chiunque s’avventuri a scrivere riguardo ad un tema come la gelosia degli dei rivela un grado di presunzione tale da provocare, se non la vendetta divina, almeno l’annoiata indifferenza dei lettori. Farò del mio meglio per evitare di suscitare questa reazione procedendo su di un sentiero un po’diverso da quelli percorsi da altri studiosi certamente più noti del sottoscritto.

Spero altresì che la manifesta consapevolezza della mia presunzione possa allontanare qualcosa dell’ira che altrimenti potrebbe ricadere sulla mia testa. Dopo aver pronunciato questa preghiera apotropaica, passo ora alle circostanze che hanno dato lo spunto a questo studio.

Nel 1971 uscì il libro del professor Hugh Lloyd-Jones, The Justice of Zeus (Berkeley, Los Angeles and London. Una seconda edizione di quest’opera con un importante epilogo è uscita nel 1983). Lo lessi e mi trovai largamente d’accordo sulle tesi principali di quel libro. Rimasi però sconcertato da quanto Lloyd-Jones ebbe a dire sullo φθόνος degli dei. L’autore sosteneva che quando Pindaro ed Erodoto parlano di φθόνος non vadano intesi nel senso che gli dei sono invidiosi del successo umano, ma che nutrono risentimenti verso coloro che dalla buona fortuna sono traviati al punto di dimenticare i limiti della condizione umana. Vale a dire che Pindaro ed Erodoto non attribuiscono agli dei una disposizione d’animo cattiva e maligna ogni volta che affrontano tale tema. Φθόνος divino, secondo l’opinione di Lloyd-Jones, è una forza morale che punisce quegli uomini che varcano i limiti ai quali i mortali devono attenersi.

Gli studiosi che propendono per questa visione moralizzata della cosiddetta “invidia degli dei” sostengono che i passi, in particolare quelli di Erodoto, nei quali lo φθόνος divino sembra essere una forza maligna e ostile, una volta considerati nel loro contesto più ampio, non appoggerebbero una tale interpretazione. Certi altri fattori e presupposti hanno agito sul pensiero di tali studiosi a proposito di questo tema. Alcuni di essi non riescono ad immaginare che i Greci potessero aver concepito i loro dei come maligni e invidiosi. Esitano a credere che i Greci possano aver coltivato una concezione così primitiva del divino. Alcuni respingono l’idea perché molto spesso si parla degli dei come campioni della giustizia. Coloro che condividono quest’ultimo punto di vista, partono da un assunto molto importante e generale sui Greci: non aver potuto essi sostenere credenze sulle loro divinità incompatibili tra di loro. In altre parole, vengono presupposti una certa coerenza e un certo sistema nel pensiero greco sugli dei. Per quanto io sappia, tale presupposto non è mai stato sondato e tanto meno sostenuto con argomenti probanti.

In un articolo apparso nel «Journal of Hellenistic Studies» del 1983 dal titolo The portrayal of moral evaluation in Greek poetry, Sir Kenneth Dover accennava al fatto che non esiste coerenza tra i giudizi morali pronunciati dagli uomini: questi variano a seconda della situazione in cui si trovano e del loro particolare interesse in tale situazione. Lo scopo principale di Dover nel suo scritto era di mettere in discussione quella concezione dell’etica greca altamente sistematizzata e del tutto coerente con se stessa, che A.W.H. Adkins aveva proposto nel suo Merit and Responsability. A Study in Greek Values del 1960.

Credo che quello che Dover ha da dire sul carattere dei giudizi morali degli uomini valga altresì per quanto gli esseri umani dicono e pensano della divinità. Anche qui troviamo vistose incoerenze. Gli uomini, evidentemente, hanno bisogno di attribuire un senso al mondo nel quale vivono, un mondo che li smarrisce e li confonde. Ragion per cui non c’è da stupirsi che in certo momento parlino delle divinità come di mostri malvagi e corrotti, e in altre occasioni esprimano invece la convinzione che la divinità sicuramente ricompenserà la bontà e la pietà di un uomo. Per mettersi in grado di rispondere a quello che colpisce essi stessi e altri esiste un corpus di saggezza tradizionale. E in questa raccolta sono contenute affermazioni che sono incoerenti e contraddittorie (il libro di M. Heath, The Poetics of Greek Tragedy del 1987, pp. 157-162 in particolare, si rivela a tal proposito illuminante).

Per illustrare l’incoerenza e la contraddizione inerente alla saggezza tradizionale, vediamo ora non quello che i Greci hanno da dire sugli dei, ma sul modo in cui dovrebbero essere trattati i nemici. Nell’Istmica 4,48 Pindaro dice quanto segue: “È necessario far di tutto per distruggere un nemico”. Nella Pitica 2,84-85 parla in uno spirito simile: “Con un nemico agirò da nemico e cercherò di colpirlo alla maniera del lupo, in altri momenti tentando un obliquo sentiero”. In sorprendente contrasto con queste affermazioni nella Pitica 9, 95-96 vediamo Pindaro far suo un detto che egli attribuisce al Vecchio del Mare: “Ci disse di lodare con tutto l’animo e secondo giustizia persino un nemico che aveva fatto bene”. Poi dalle Trachinie, 275-280 di Sofocle abbiamo questo passo: “Egli (cioè Zeus) non tollerò che uccidesse questo solo tra gli uomini con l’inganno, poiché se si fosse vendicato apertamente, Zeus gli avrebbe perdonato questa sua vittoria, dal momento che neppure gli dei tollerano la ύβρις”.

Queste concezioni molto diverse di come debbano essere trattati i nemici non possono essere conciliate tra di loro: semplicemente coesistono l’una accanto all’altra e sono chiamate in gioco a seconda di quello che esigono le circostanze. Oltre le contingenze mutevoli vi sono certi altri fattori che possono influenzare la scelta della verità gnomica che uno espone: ad esempio il carattere e persino lo stato d’animo passeggero. In breve, non esiste un’unica concezione sul modo giusto di trattare un nemico, che i Greci abbiano enunciato una volta per tutte. Un tale quadro monoliticamente semplice fa un grave torto alle testimonianze e si dissolve di fronte alla probabilità.

Non soltanto gli uomini professano quelle che ai nostri occhi sono credenze inconciliabili, ma molto spesso essi non tengono nemmeno separate queste credenze, bensì le confondono. A noi sembra sia doveroso operare una netta distinzione tra le punizioni che gli dei comminano a quegli uomini che dimenticano i limiti della condizione umana e le calamità che gli dei, nella loro gelosia, riversano su uomini felici e prosperi. Poiché questa distinzione sembra così chiara a noi, quando interpretiamo passi nei quali chi parla prega che lo φθόνος degli dei non colpisca il suo benessere dal momento che è stato un uomo retto, noi tendiamo a non ammettere possano essere presenti in quello che viene detto due maniere diverse di concepire gli dei, ma piuttosto a cercare coerenza e ad eliminare uno degli elementi in conflitto. In pratica, questo assunto ha indotto sovente gli studiosi a sostenere che in questi passi, nei quali si avanzano considerazioni morali connesse con lo φθόνος, non si tratti propriamente di φθόνος, ma di νέμεσις divina, cioè di giusto sdegno.

Forse questa non è l’analisi corretta. Può essere che chi parla tema che gli dei per invidia sconvolgeranno la sua buona fortuna, ma nello stesso tempo speri che la sua giusta condotta conti qualcosa presso di loro. Chi parla, dunque, non ha una concezione molto coerente dello φθόνος o della νέμεσις divina, ma è preso da timori vaghi e angosciosi che egli tenta di placare come meglio può.

Queste sono le considerazioni e i presupposti metodologici che hanno guidato il mio pensiero sullo φθόνος degli dei. In sé essi non dimostrano che nella letteratura greca del V secolo vi siano delle testimonianze incontrovertibili sul timore degli uomini di vedere la loro prosperità e felicità distrutte dall’invidiosa malevolenza divina. Resta perciò da presentare la prova che la credenza nell’invidia da parte degli Dei esistesse veramente. Nel suo Justice of Zeus Lloyd-Jones sosteneva che lo φθόνος dovesse essere interpretato come un altro modo per significare l’ira che la ύβρις produce negli dei. L’obiezione principale risiede nel fatto che in un certo numero di passi di Erodoto il contesto chiarisce che lo φθόνος divino si presenta quale una forza maligna e invidiosa intenta a far naufragare la felicità umana. Vediamo due di essi, il discorso di Solone nel cosiddetto λόγος di Creso e l’avvertimento che Amasi, faraone d’Egitto, dà a Policrate, tiranno di Samo.

Secondo Erodoto, quando Solone lo visitò, Creso gli mostrò gli splendori del suo palazzo e poi chiese chi fosse l’uomo più felice che conoscesse. Creso restò deluso negandogli Solone tale primato e si mostrò piuttosto infastidito allorché Solone non riuscì a concedergli neppure il secondo premio. A questo punto Solone dà a Creso una lezione sull’instabilità della fortuna umana, per inculcare in Creso la convinzione che è impossibile rispondere alla sua domanda, prima di poter sapere quale sia stato l’esito finale della vita di Creso. Egli inizia questa lezione dicendo: “Creso, tu interroghi sulle cose umane me, un uomo convinto che la divinità è oltremodo φθονερά e incline a causare la rovina. Infatti per un lungo periodo di tempo è possibile vedere molte cose che non desideriamo vedere e anche soffrirle”(I, 32, 1-2).

A prima vista Solone sembra dire che la divinità è gelosa e malvagia e quindi solita causare sconvolgimenti nelle cose umane, e che è l’incertezza provocata da questo fattore a trattenerlo dal pronunciare un verdetto sulla felicità di Creso senza sapere in qual modo il re della Lidia abbia concluso la sua esistenza. Ora, se è questo quello che intende Solone, lo φθόνος della divinità è privo di qualsiasi elemento morale ed è semplicemente una forza capricciosa, malignamente dannosa e incapace di sopportare la vista della felicità umana. (Si noti che nel suo De Herodoti malignitate, [Moralia, 857f-858a] Plutarco accusa Erodoto di mettere in bocca a Solone parole che riflettono la sua propria credenza blasfema nell’invidia divina. Questo significa che il filosofo di Cheronea crede che Erodoto ritenga gli dei essere invidiosi).

L’argomento principale in favore di tale interpretazione è che Solone parla in termini assolutamente generali dell’instabilità di qualsivoglia fortuna umana: nessun uomo ne è escluso. Se le cose stanno così e se φθόνος è il fattore che provoca questa incertezza, allora alla base non esiste un principio morale che regoli la maniera in cui esso agisce: si applica a tutti indistintamente, insieme a coloro le cui teste sono deviate ad opera della loro buona fortuna e a coloro che a tale pernicioso traviamento si sottraggono.

Quelli che credono alla versione moralizzata dello φθόνος divino ora ci diranno che non abbiamo considerato il passo nel suo pieno contesto e che se lo facciamo, vedremo che Solone in realtà mette in guardia Creso dal pericolo di pensare d’essere il più felice di tutti gli uomini. Erodoto infatti ci narra che Creso ignorò le parole di Solone e poi dice: “Dopo che Solone fu partito, una grande νέμεσις della divinità raggiunse Creso. Si può supporre che questo avvenisse perché egli considerò se stesso il più fortunato degli uomini” (I, 34, 1). Così il punto della lezione di Solone, in questa interpretazione, non è che un uomo non può essere certo del suo fato, visto che lo φθόνος degli dei è capriccioso e maligno, ma che non dovrebbe dimenticare l’incertezza della sua sorte, perché se lo fa, si attirerà la gelosia divina e farà ricadere sulla sua testa la punizione. Lo φθόνος degli dei, in tal guisa, perde le caratteristiche di capricciosa malignità per divenire una forza tesa a punire quanti scordano i limiti della condizione umana.

Penso che rifarsi ad un contesto più ampio sia illegittimo poiché collega la grande νέμεσις che colpisce Creso per aver osato pensare di essere il più felice degli uomini con l’espressione della convinzione di Solone relativa ad una divinità φθονερά. Chi vuole così appellarsi al contesto ignora il fatto che nella prima parte del suo discorso Solone intende spiegare il motivo della sua riluttanza a proclamare felice Creso e che alla fine del discorso egli s’è allontanato impercettibilmente dal motivo di diffidare Creso dal chiamare se stesso felice, prima di vedere la fine della sua vita. È con quest’ultimo tema che va connessa la grande νέμεσις che si abbatte su Creso; il tema dello φθόνος, d’altra parte, è introdotto soltanto per spiegare l’incertezza regnante nella condizione umana, che trattiene Solone dal pronunciare un giudizio sulla felicità di Creso.

Il secondo passo-chiave in Erodoto è la lettera che il faraone Amasi invia al tiranno Policrate, suo amico, dopo aver saputo della serie ininterrotta di successi di cui ha goduto quest’ultimo. Scrive quanto segue: “Fa piacere sentire di un amico e ospite che ha successo, ma i tuoi grandi successi non mi piacciono, dal momento che sono convinto che la divinità è φθονερά. Per me e per quelli che mi stanno a cuore desidero che riescano in alcune cose e che non riescano in altre e così passino la loro vita alternando successi a fallimenti, piuttosto che abbiano successo in tutte le cose. Non ho ancora sentito di qualcuno che abbia avuto successo in tutte le cose, che al termine non abbia trovato una fine disgraziata e misera” (III, 40, 2-3). Perciò il consiglio di Amasi a Policrate è che egli crei artificialmente una sfortuna per se stesso per compensare la sua buona fortuna; egli dovrebbe disfarsi della cosa per lui di massimo pregio e per la cui perdita più si affliggerebbe. Policrate tenta di farlo ma fallisce; l’anello del quale cerca di disfarsi viene trovato nel ventre di un grande pesce portatogli da uno dei suoi sudditi.

Qui sembra essere affermato in maniera ancora più chiara che lo φθόνος divino è, se non proprio una forza capricciosa e maligna, una forza che infligge disgrazie agli uomini, senza riguardo per i loro meriti, pur d’impedire loro di godere una vita di felicità senza turbamenti. Che sia questa la natura dello φθόνος divino è inoltre suggerito dalle misure prese da Policrate per allontanarlo: la deliberata ricerca di una perdita. In questa accezione lo φθόνος è una forza maligna che garantisce, nel migliore dei casi, l’equivalenza della vita umana ad una mescolanza di buona e cattiva fortuna.

Coloro che propongono la concezione moralizzata e “santificata” dello φθόνος divino elimineranno questo passo interpretandolo esattamente nello stesso modo in cui interpretano ed eliminano il consiglio dato da Solone a Creso. Si rifaranno al contesto più ampio e attireranno la nostra attenzione sulle numerose azioni scellerate commesse da Policrate come prova che Amasi sta veramente mettendo in guardia il tiranno di Samo dai pericoli nei quali incorre fidando nel suo “delirio di onnipotenza”.

La migliore risposta a questo quesito riposa nelle parole di Amasi ove non c’è nessun accenno che tale sia l’intento del suo consiglio. Un secondo punto è che nella storia vi è ben poco o nulla per confermare che la morale del racconto sia quella che gli uomini, le cui menti sono traviate dalla loro buona fortuna, debbano attendersi d’essere puniti dagli dei. La conclusione della storia è il terribile destino toccato a Policrate: fu attirato a Magnesia dal satrapo Orete che lo uccise, legando il suo corpo crocifisso ad un palo ed esponendolo alle intemperie degli elementi. Questa, dice Erodoto, fu la fine indegna di Policrate e delle sue aspettative. Conclude il racconto con parole che ne richiamano l’inizio: “In questa maniera finirono i molti casi di buona fortuna goduti da Policrate” (III, 125, 4). Le parole conclusive di Erodoto e il suo commento su come morì Policrate suggeriscono entrambi il punto che intende porre in rilievo raccontando questa storia: la grande fortuna favorevole suole finire in un disastro.

Prima di prendere congedo da Erodoto vorrei attirare l’attenzione sui presupposti alla base delle interpretazioni dei λόγοι di Creso e Policrate che ho appena criticato. Tali interpretazioni mi pare si fondino sull’assunto che esiste in Erodoto un sistema unificato e coerente di spiegazione che si estende persino ai discorsi che lo storico mette in bocca ad altri. Non è questa la sede per discutere il punto. Posso semplicemente affermare di credere che Erodoto non si avvale di un’unica teoria o spiegazione della causalità, ma che egli opera con diverse teorie inconciliabili tra loro. Perciò non ha senso estrarre qualche principio comprensivo. Faremmo meglio a riconoscere che non c’è coerenza e che egli usa quella teoria capace di offrire il miglior senso ai fatti che ha sottomano.

In aggiunta a questi passi di Erodoto, una seconda ragione per pensare che lo φθόνος degli dei non fosse una versione indebolita e moralizzata di quello che esiste tra gli uomini, sono gli attacchi mossi contro questa concezione da scrittori più tardi. Quantunque vi siano testimonianze fin dai tempi di Senofane di un desiderio di una concezione purificata della divinità, che fosse libera da tutte le colpe e dai fallimenti umani, dobbiamo arrivare ad Aristotele per trovare veramente un attacco esplicito contro il concetto dello φθόνος divino. Nella Metafisica Aristotele respinge l’idea che la divinità sia φθονερά e che se ne abbia a male se gli uomini dovessero indagare sulle cause prime. Egli afferma: “ Se c’è qualcosa in quello che dicono i poeti e se la divinità è per sua natura incline ad essere φθονερά, allora ne consegue che tutti quelli che procedono oltre sono particolarmente esposti ad essere sfortunati. Ma è impossibile che la divinità debba essere φθονερά e si avvera il proverbio che dice « i poeti raccontano molte menzogne ». E non è neppure necessario pensare ad una qualsiasi altra forma di conoscenza che debba essere più onorata di questa”(982b32-983a4).

L’idea che la divinità possa essere φθονερά è inconcepibile per Aristotele; il tacito assunto che sta dietro il suo rifiuto di una tale possibilità è quasi certamente quello che la divinità sia per sua natura buona e come tale incapace di una disposizione così pervicacemente malvagia e gelosa quanto la credenza nello φθόνος indurrebbe a presupporre. È interessante e anche sconcertante che Aristotele sostenga essere i poeti a qualificare la divinità φθονερά, come se le testimonianze in questo senso non si potessero trovare altrove. In realtà, i termini che egli usa parlando di questa idea, θειον e φθνερά non ricorrono in nessun testo poetico da noi conosciuto; queste sono proprio le parole impiegate da Erodoto. Appare complesso rispondere a questo quesito, ma resta l’argomento che per Aristotele lo φθόνος non è un’altra maniera per esprimere il giustificato sdegno degli dei, ma una forza maligna e dispettosa nelle concezioni ch’egli avversa.

Tuttavia non fu Aristotele il primo ad affermare che la divinità era immune da φθόνος, cioè non disposta a rendere partecipi della conoscenza da essa posseduta. Già nel Fedro di Platone abbiamo un riferimento allusivo a tale assunto, che proprio per la sua allusività fa pensare che l’idea avesse una storia e che Platone non avvertisse alcun bisogno di spiegarla estesamente. L’allusione nel Fedro è il famoso passo in cui Socrate descrive il viaggio degli Dei attraverso il cielo: “All’interno del cielo ci sono molti spettacoli e viaggi che compie la stirpe beata degli Dei, e quando essi li fanno, ciascuno adempie al proprio dovere. Quelli che ne hanno la volontà e capacità li seguono, poiché φθόνος resta fuori dal coro divino” (247a). Vale a dire, gli dei non per φθόνος impediscono alle anime degli uomini di acquistare la conoscenza delle forme.

Una terza ragione che induce a pensare che nel V°secolo gli uomini credessero che il soprannaturale fosse invidioso è il persistere di tale credenza in secoli più tardi, anche se in una forma un po’alterata. Per motivi non agevolmente rintracciabili, i riferimenti allo φθόνος degli dei difficilmente si possono trovare nella letteratura greca dopo il 400 a.C. Quello che s’incontra è φθόνος come predicato della fortuna (τύχη o δαίμον), della νέμεσις, del fato (Μοιρα): di φθόνος in sé e di βασκανία si parla come se fossero forze divine indipendenti. Queste formulazioni compaiono per la prima volta nel IV°secolo a.C. e continuano fino alla tarda antichità. Le troviamo in epitaffi, nel romanzo e nelle lettere dei contemporanei: Libanio, nella seconda meta del IV secolo d.C., ricorre spesso a questi modi di dire nel suo epistolario.

Perciò penserei che quando la gente parlava di φθονερά τύχη e di φθόνος avevano in mente più o meno la stessa cosa alla quale pensavano i loro antenati allorché discorrevano dello φθόνος degli dei: cioè esiste fuori di noi una forza ostile, maligna e invidiosa che si diverte a troncare la felicità umana. Inoltre supporrei che queste espressioni siano in un certo senso i discendenti diretti del concetto dello φθόνος divino. Specialmente in Pindaro e nella tragedia esiste un nesso molto stretto tra lo φθόνος degli dei e la τύχη. Forse ci sono anche degli indizi che φθόνος persino allora, nel V°secolo, fosse concepito come un’entità indipendente, soprannaturale.

Certi accenni in epoca più tarda alla φθονερά τύχη o allo φθόνος o alla βασκανία come a forze malevoli che si divertono a distruggere ciò che è eccellente e bello mostrano che questi moduli espressivi non sono semplicemente concetti letterari, bensì riflettono una credenza viva. Uno di questi è un passo di riflessione dello scrittore di viaggi Pausania, suscitato dalla tomba di Demostene nel santuario di Poseidone nell’isola di Calauria nella Trezene: “Entro il recinto c’è anche la tomba di Demostene. Mi sembra che nel suo caso e in quello di Omero la divinità mostri quanto sia invidiosa (il greco ha βάσκανον), dal momento che Omero, dopo essere stato privato della luce degli occhi, fu afflitto da un altro male, la povertà, che lo spinse come mendicante per ogni paese, e a Demostene toccò di sperimentare l’esilio nella sua tarda età e di subire una morte così violenta” (II, 33,3). Questo passo mostra molto chiaramente che tipo di eventi inducessero gli uomini a credere nell’esistenza di brutali e malevoli poteri soprannaturali. Nello stesso tempo ci dà un’idea di cosa gli uomini sentissero quando sulle tombe dei loro cari si lamentavano del fatto che la fortuna invidiosa o la νέμεςις avesse strappato loro l’essere amato.

Ora passo a un tentativo di ricostruzione della parte che il timore dello φθόνος divino ebbe nella vita degli uomini. Nel fare questo è importante tener presente quanto poco sappiamo di quello che gli uomini veramente credevano e facevano. I termini in cui Aristotele critica l’idea che la divinità sia φθονερά ci dovrebbero trattenere dall’ipotesi troppo frettolosa che fosse specificamente l’invidia degli dei quella che gli uomini temevano quando avevano successo o che essi rimproveravano nella loro sfortuna. Può essere che lo φθόνος sia qualcosa come una creazione letteraria e che i timori e le angosce degli uomini non s’indirizzassero tanto verso gli dei quanto verso entità indifferenziate e malevoli fuori di noi. È anche possibile che temessero lo φθόνος di una scala molto più vasta di potenze soprannaturali che non gli dei. Nell’alta letteratura giunta fino a noi dal V secolo a.C. sono relativamente scarse le menzioni della magia e ancora meno si parla di fantasmi, demoni e spiriti. Eppure, con tutta probabilità, gli uomini temevano lo φθόνος anche di questi esseri, e nelle loro preghiere apotropaiche speravano di allontanare la loro invidia altrettanto quanto quella degli dei. L’esiguità delle nostre conoscenze sulle reali credenze umane risulta da un passo della Vita di Dione (II, 5-6) di Plutarco, nel quale egli riferisce una vecchia teoria secondo la quale ci sono demoni invidiosi che provocano le cadute degli uomini nella loro virtù: “Ma se Dione e Bruto, uomini seri, studiosi di filosofia, non inclini né a credere né a lasciarsi catturare da una qualunque emozione, furono posti da uno spettro in uno stato d’animo tale da parlarne persino con estranei, siamo forse costretti ad accettare la più incredibile fra le opinioni di remota antichità, cioè che gli spiriti maligni e cattivi (τά φαυ̃λα δαιμόνα καί βάσκανα) che invidiano gli uomini probi e si oppongono alle loro imprese, suscitano in loro turbamenti e paure, scuotendo e facendone vacillare la virtù, affinché essi, non restando saldi ed integri nel bene, non ottengano dopo la morte una sorte migliore della loro”. Se non avessimo la testimonianza di Plutarco non avremmo nessuna idea dell’esistenza di tali credenze.

C’è un accenno nei Persiani di Eschilo, in quel discorso in cui il messo spiega come ebbe inizio la battaglia di Salamina, che lo φθόνος di demoni e spiriti cattivi aveva una sua parte nel pensiero degli uomini e che non era nettamente distinto da quello degli Dei: “Un αλάστωρ [spirito della vendetta, una presenza oscura e misteriosa] o un κακός δαίμον, apparso da qualche parte, ha iniziato tutto il male, Signora. Poiché venne un greco del contingente ateniese e disse a tuo figlio Serse che, una volta sopravvenuta l’oscurità della notte, i Greci non sarebbero rimasti, ma sarebbero saltati sui banchi delle loro navi e si sarebbero dispersi per salvare la vita con una fuga segreta. Ma quando egli udì questo, non capì l’astuzia del Greco né lo φθόνος degli dei” (vv.353-362).

È molto difficile ricostruire cosa esattamente gli uomini del V secolo a.C. credessero a proposito dello φθόνος del soprannaturale. Persino se non avessimo Aristotele a far vacillare le nostre certezze, ci sarebbe ancora una buona ragione per sospettare che la letteratura alta del periodo presenti un ritratto in qualche modo elevato e semplificato dei pensieri e delle azioni degli uomini e che sopprima elementi ritenuti sconvenienti, ma dei quali vorremmo tanto volentieri sapere di più.

A causa della deliberata soppressione di temi intrisi di “sconvenienza” ignoriamo quasi certamente molte delle misure prese dagli uomini per neutralizzare lo φθόνος del soprannaturale. D’altra parte, dai testi che possediamo è ancora possibile ricostruire almeno qualcosa di ciò che avranno fatto e detto. Perciò, invece di continuare a concentrare la nostra attenzione sul contenuto di quanto è detto sullo φθόνος degli dei in Pindaro, Erodoto e nella tragedia, è più utile tentare di ricostruire quello che gli uomini facevano effettivamente.

Delle dieci dichiarazioni apotropaiche dirette allo φθόνος in Pindaro e nei tragici, sette sono intese ad allontanare lo φθόνος suscitato da ciò che è stato realmente detto o sta per essere detto. Con una sola eccezione, chi prega è la persona che ha pronunciato o pronuncerà le parole potenzialmente pericolose. Il pericolo consiste nella menzione di successi, benefici goduti e possesso di capacità o qualità eccezionali. È per prevenire tale pericolo, o uno strettamente affine, che Pindaro pronuncia le sue preghiere apotropaiche. Con la sua semplice azione di lodare egli crea un pericolo per il vincitore che celebra, o per la sua famiglia o per la sua città; deve quindi intraprendere dei passi per stornarlo.

Dobbiamo tenere presente che non sappiamo quali altri tratti di un’ode epinicia possano aver avuto un intento apotropaico. Pindaro, per esempio, regolarmente ricorda o allude alle disgrazie occorse al vincitore o alla sua famiglia. Alcuni studiosi considerano tutto ciò semplicemente come sfondo inteso a sottolineare i successi del vincitore. Possono benissimo aver avuto anche lo scopo di alleviare lo φθόνος attirando l’attenzione vuoi sul fallimento che sul successo.

Il timore delle conseguenze di una lode troppo smaccata si trova in modo particolare in quella scena dell’Agamennone di Eschilo nella quale Clitemnestra saluta Agamennone e lo invita a camminare dal suo carro fin dentro al palazzo su di un percorso cosparso di drappi di porpora. La tensione drammatica della scena si basa per buona parte sulle apprensioni che provocano in noi le azioni di Clitemnestra, progettate come sembrano per suscitare lo φθόνος. A tale effetto contribuisce anche la sua lode eccessiva di Agamennone. Prima d’invitare il marito a scendere dal suo carro essa si sofferma a lungo, con paragoni stravaganti, sulla sua importanza per quelli che gli stanno intorno. Conclude questa apostrofe lodatoria pregando che lo φθόνος stia lontano. Che essa non sia sincera, lo sospettiamo; la preghiera apotropaica non fa niente per dissipare questi sospetti: anzi serve piuttosto ad attirare la nostra attenzione sul pericolo creato da quella lode. Agamennone stesso è chiaramente a disagio quando sente tale lode e rimprovera Clitemnestra suggerendo che quest’ultima dovrebbe essere appropriata e provenire da altri.

Il secondo tipo di occasioni nelle quali si innalzano preghiere apotropaiche contro lo φθόνος è quando un regalo particolarmente prezioso o potente viene portato da una persona ad un’altra. Evidentemente anche questa poteva essere un’occasione gravida di pericoli. È interessante che sia il donatore a pronunciare la preghiera apotropaica, proprio come lo è il dispensatore di lodi. Sia Eracle nell’Alcesti che Filottete nel dramma omonimo, quando consegnano i loro doni rispettivi dicono al destinatario di accettare i doni e poi pronunciano la preghiera apotropaica contro lo φθόνος. È vero che quello che fa Filottete è di ordinare a Neottolemo di omaggiare lo φθόνος per allontanare i mali che l’arco aveva procurato a Filottete stesso e ai suoi proprietari precedenti e che è Neottolemo quello che effettivamente prega dicendo: “O dei così sia! E ci tocchi una navigazione col vento in poppa, facile, dovunque il dio decida, e ci consenta la rotta” (vv.779-781). Ma in pratica l’ordine di Filottete (τόν Φθόνον δέ πρόσκυσον: paga il dovuto rispetto a Invidia) ha l’effetto di una preghiera apotropaica, pur se intrisa di dubbi.

Per l’altro esempio di una preghiera apotropaica ritorniamo all’Agamennone. Qui il protagonista prega di non essere colpito da lontano dallo φθόνος dell’occhio quando cammina sui drappi di porpora che sono per gli Dei (μ’εμβαίνονθ’αλουργέσιν θεω̃ν / μή τις πρόσωθεν όμματος βάλοι φθόνος [vv.946-947]). Se nella vita reale esistessero situazioni simili può essere solamente oggetto di ipotesi; è possibile che una di queste fosse il ritorno trionfale di un atleta vittorioso nella sua patria.

Queste sono le misure apotropaiche contro lo φθόνος che troviamo attuate in Pindaro e nella tragedia. Oltre ad esse c’è l’espediente raccomandato da Amasi a Policrate, quello di provocare volontariamente una perdita per controbilanciare l’eccessiva buona fortuna. Anche questo può essere stato impiegato nella vita reale.

Non è soltanto nelle preghiere apotropaiche che gli uomini invocano lo φθόνος degli dei. Esiste una serie di altre occasioni nelle quali li vediamo appellarsi a questo concetto e fra le principali le calamità inesplicabili e ingiustificabili. Nella letteratura troviamo nei Persiani la spiegazione del messo di cos’abbia indotto Serse a iniziare la battaglia di Salamina e nell’Oreste di Euripide il lamento di Elettra sulle sventure della sua casa.

Le spedizioni militari sembrano essere particolarmente cariche dei timori dello φθόνος. È probabile che la loro dimensione e il loro splendore le facessero apparire vulnerabili. Abbiamo tre esempi nei quali si fa menzione esplicita o implicita del rischio che un esercito può correre d’essere esposto allo φθόνος degli dei. In Erodoto c’è Artabano che tenta di dissuadere suo nipote Serse dall’invadere la Grecia appellandosi allo φθόνος che grandi eserciti suscitano nella divinità (VII, 10 ε): “Tu vedi gli animali che si distinguono fra gli altri come il dio li colpisce col fulmine e non permette loro di far pomposamente mostra di sé, mentre quelli piccoli non lo infastidiscono affatto. E vedi come sugli edifici più grandi e sugli alberi delle stesse dimensioni sempre egli avventa i fulmini. Perché il dio suole stroncare tutto ciò che s’innalza (φιλέει γάρ ò θεός τά υπερέχοντα πάντα κολούειν). E così anche un esercito grande viene distrutto da uno piccolo nella stessa maniera: quando il dio, preso da invidia, (ò θεός φθονήσας) scateni loro contro il terrore o un tuono, periscono allora in modo indegno di loro. Perché il dio a nessun altro permette di nutrire pensieri di grandezza fuor che a se stesso (ου γάρ εα̃ φρονέειν μέγα ò θεός άλλον ή εωυτω̃ν)”.

Etra nelle Supplici di Euripide incita Teseo a soccorrere le vecchie madri e alla lotta contro i Tebani; fa proprio il pessimismo euripideo quando paragona la vita ad un tragico gioco a dadi da parte di un dio capriccioso; ma, pur consapevole che i Tebani tenteranno altre imprese, sente che ad esse non arriderà la medesima fortuna, perché: “capovolge un dio tutte le cose (ò γάρ θεός πάντ’αναστρέφει πάλιν [v.31])”. Teseo, convinto dalla madre, ricorrerà per prima cosa alla persuasione e userà la forza come ultima ratio così da non offendere gli dei (v.348): “έσται κούχί σύν φθόνω θεω̃ν”.

Nicia in Tucidide (VII, 77) come Etra nelle Supplici sminuiscono il pericolo dello φθόνος divino con l’argomento che il nemico che stanno affrontando ha avuto egli stesso abbastanza successo: cioè gli dei non si risentiranno se essi sconfiggono i loro avversari, dal momento che hanno già goduto di tanto buon esito che gli dei potrebbero provare invidia per ulteriori vittorie. Nicia, come vedremo, userà questa strategia comunicativa per incoraggiare il suo esercito demoralizzato.

All’inizio di questo lavoro avevo accennato al fatto che gli uomini si preoccupano poco della coerenza nelle spiegazioni offerte per quello che accade ad essi e a quelli che stanno intorno ad essi. Ciò che importa loro è di essere in grado di fornire una spiegazione che sembri conferire un senso a quanto accaduto. Tale spiegazione varierà a seconda delle circostanze e dei modi.

Il comportamento della regina madre Atossa nei “Persiani” di Eschilo illustra questo punto: in una scena ella assente all’idea che la responsabilità della sconfitta persiana a Salamina vada attribuita allo φθόνος degli dei, mentre nella scena seguente non soltanto si associa all’ipotesi del marito che sia stata la ύβρις del figlio Serse ad attirare sui Persiani l’ira degli dei, ma addirittura incoraggia tale opinione.

R.P. Winnington-Ingram nel suo “Studies in Aeschylus” (Cambridge, 1983) si è accorto di questa differenza e ha tratto la conclusione che la spiegazione di Dario della rovina persiana era quella attendibile e che nel costruire così le due scene Eschilo avrebbe deliberatamente respinto, come falso, l’antico concetto dello φθόνος degli dei. Personalmente propendo a dubitare che Eschilo abbia usato i suoi drammi quale veicolo per questo genere di polemica teologica. Penserei piuttosto che proprio le diverse atmosfere che le due scene intendono creare abbiano determinato in che modo Atossa consideri gli dei. Ritengo altresì che il pubblico non avrà notato alcuna incongruenza né si pensava dovesse farlo.

Non solo esistono testimonianze sulla possibilità di esprimere, in diverse occasioni, opinioni assai differenti circa la motivazione divina, ma sono molto più numerose quelle che dimostrano quanto non le tenessero distinte. Al fine d’illustrare quest’ultimo punto mi servirò del discorso che Tucidide fa pronunciare a Nicia allorché tenta di rianimare le sue truppe demoralizzate: “Anch’io, che pure non supero nessuno di voi per forza fisica (su, guardate come sono ridotto a causa della mia malattia!), e che non apparivo secondo a nessuno per buona sorte nella mia vita privata e in ogni occasione, ora sono sottoposto allo stesso pericolo dei più umili tra voi. Eppure, io sono sempre vissuto nell’osservanza di tutte le leggi divine, della giustizia, della mancanza di gelosia verso gli uomini. Perciò, nonostante tutto, io nutro ardite speranze per l’avvenire, e le sciagure non mi spaventano quanto dovrebbero. Forse anche ci verrà un sollievo, perché i nemici hanno avuto sufficiente fortuna e se la nostra spedizione ha suscitato la gelosia (φθόνος) di qualche dio, siamo già stati puniti abbastanza. Anche altrove è avvenuto che alcuni assalissero altri, e avendo compiuto atti quali compiono gli uomini, subissero sventure sopportabili. E ora è ragionevole sperare che le intenzioni della divinità siano più clementi verso di noi (ora, infatti, siamo più degni di compianto da parte loro che di φθόνος” (VII, 2-4).

Nicia qui si appella a quelle che per la nostra mentalità sono due concezioni diversissime della divinità: da una parte egli considera gli dei invidiosi e adirati per il successo umano; dall’altra egli fa capire di essere fiducioso che la sua pietà verso gli dei e i suoi rapporti ineccepibili con gli altri uomini non saranno privati di una ricompensa divina.

Il Nicia di Tucidide è certamente un ritratto assolutamente convincente del modo in cui gli uomini pensano e parlano di fronte alle difficoltà; si attaccano ad ogni appiglio e, così facendo, molto spesso esprimono opinioni contraddittorie. Non può stupire che agissero in tale modo, dal momento che vanno in cerca di assicurazioni emotive, non di una spiegazione scientificamente valida. Dovremmo riconoscere che questo è ciò che fanno gli uomini e non cercare d’imporre un grado di coerenza, appropriato soltanto per un teologo sistematico, su quanto viene detto circa gli dei nella letteratura greca non filosofica. Dobbiamo trattenere il nostro desiderio di scoprire sistema e ordine in ogni cosa e fare le debite concessioni alla diversità e incoerenza che caratterizza il comportamento dell’uomo.

Prof. Gardenio Granata
19 Gennaio 2022

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